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L’arte religiosa degli ultimi due terzi del XVI secolo è plasmata dalle energie del movimento di riforma che, dall’interno della Chiesa cattolica, già negli anni 1530 comincia a formulare risposte alle accuse dei protestanti. Spesso polemica, è un’arte al servizio dell’istituzione ecclesiastica, che piega all’espressione del pensiero teologico il manierismo stilistico del tempo e che non ricusa davanti a contenuti ideologici. Rifiutata dai protestanti, l’arte stessa diventa strumento ideologico, segno di fedeltà alla tradizione liturgico-devozionale del cattolicesimo.
Come all’inizio del secolo, ma con nuova urgenza e servendosene quasi come arma, i papi coltivano l’arte monumentale. L’autorità pontificia, contestata da Lutero e dagli altri riformatori d’oltralpe, risponde con produzioni architettoniche, plastiche e pittoriche la cui forma sembra ormai calcolata in funzione dell’attacco nemico. L’opera più imponente, la cupola di San Pietro, subirà questo processo d’enfatizzazione: concepita per la basilica i cui costi avevano contribuito a scatenare la rivolta luterana, viene realizzata a partire dal 1547 non sull’originale progetto bramantesco, evocativo della cupola del Pantheon, ma su disegno di Michelangelo, il quale s’ispira alla cupola quattrocentesca del duomo fiorentino. Al posto della serena volta emisferica, cioè, la basilica vaticana viene incoronata da una costruzione più gotica che classica, tesa verso l’alto sopra un tamburo con colonne in aggetto che sottolineano il dinamismo dell’insieme, quasi a simboleggiare la vitalità della Chiesa.
Come tutti sanno, poi, il simbolo corrispondeva a realtà, perché mentre Michelangelo dirigeva i lavori della cupola di San Pietro a Roma, a Trento il concilio chiamato a provvedere alla riforma della Chiesa emanava, uno dopo l’altro, vigorosi decreti a condanna dell’eresia, destinati a dar forma al pensiero cattolico per quattro secoli. E nei diciotto anni del concilio tridentino (1545-1563), come dopo, la continua espansione di vecchi ordini religiosi rinnovati e soprattutto di nuovi ordini quali i Teatini e i Gesuiti potenziava la presenza cattolica tra l’emergente borghesia d’affari nelle città d’Europa, tra i loro figli nelle scuole, tra i poveri negli istituti di carità e tra i non cristiani nelle missioni dell’Oriente e del nuovo mondo. (…)
Personaggio emblematico, anche nella sua ambivalenza, della Riforma e dell’arte che ne scaturisce è il romano Alessandro Farnese, eletto papa col nome Paolo III nel 1534, alla morte di Clemente VII de’ Medici. Umanista educato nella cerchia di Lorenzo il Magnifico, Paolo III continuerà sia la nobile tradizione di mecenatismo sviluppata dai suoi predecessori, sia quella meno nobile del nepotismo papale. Commissiona grandi opere a Michelangelo: il Giudizio universale, gli affreschi di una cappella del palazzo pontificio nota come la Paolina e la cupola di San Pietro, ma nel contempo crea cardinali i due figli adolescenti del proprio figlio naturale Pierluigi Farnese, per il quale ottiene il titolo di duca di Parma e di Piacenza.
Paolo III era stato eletto in base alla sua promessa di convocare finalmente il concilio generale atteso sin dai tempi di Sisto IV, e che, di fronte alle accuse dei protestanti, non era più rinviabile. Così, insieme al mecenatismo artistico e all’avanzamento della propria famiglia, nell’estate del 1536 crea una commissione per studiare gli abusi nella Chiesa; nove mesi dopo, i membri della commissione – tra cui alcuni dei più convinti riformatori del tempo: i cardinali Gaspare Contarini, Jacopo Sadoleto, Giampietro Carafa e Reginald Pole nonché il vescovo Gian Matteo Giberti – gli presentano un documento straordinariamente severo, De emendanda Ecclesia, in cui vengono rimproverati gli stessi papi che, credendo a canonisti compiacenti, avevano trattato gli uffici della Chiesa come un possesso legittimamente commerciabile. D’ora in avanti, afferma il De emendanda Ecclesia, i papi per primi dovranno rispettare le leggi della Chiesa; il documento parla inoltre dell’inadeguata formazione intellettuale e morale del clero, dell’assenteismo dei vescovi, della condizione spiritualmente deplorevole di numerosi monasteri e congregazioni religiose, della diffusa simonia nella Chiesa romana, dell’immoralità pubblica di molti preti e familiari di alti prelati. L’agognato concilio generale, annunciato per Mantova nel 1537 e poi per Vicenza nel 1538 ma sempre rinviato, fu convocato a Trento per il 1 novembre del 1542 – data anche questa destinata a slittare di tre anni, fino al 1545 quando, il 13 dicembre, una sparuta congrega di trentun vescovi e meno di cinquanta teologi e canonisti aprirono i lavori destinati a durare diciotto anni, durante i quali un totale di 270 padri conciliari (di cui 187 italiani) produssero una mole di decreti maggiore a tutti i documenti di tutti i precedenti concili nella storia della Chiesa. Il clima del mondo cattolico al momento d’inaugurare i lavori del concilio è suggerito da due fatti degli anni immediatamente precedenti: l’approvazione data da Paolo III nel 1540 all’ordine fondato dall’ex-soldato Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù, e l’istituzione nel 1542 di un’inquisizione romana con poteri di censura penale sotto l’autorità del Sant’Uffizio pontificio. Lo spirito della cerchia di Paolo III è suggerito da un affresco eseguito un anno prima dell’apertura del concilio di Trento, che in maniera esplicita lega il ruolo del pontefice come riformatore con quello di mecenate d’arte. Commissionato a Giorgio Vasari da un nipote del papa, il cardinale Alessandro Farnese, per il palazzo della Cancelleria a Roma, l’affresco fa vedere Paolo III mentre dirige i lavori dell’erigenda basilica vaticana, la mole delle cui strutture occupa tutta la parte centrale dell’immagine. Vista dal versante meridionale, la basilica mostra lo stato di avanzamento a metà degli anni 1540, con i colossali piloni e archi bramanteschi completi, come nei disegni di Maerten Van Heemskerck di qualche anno prima, e le centine lignee per la costruzione delle volte della crociera ancora in posizione. A dirigere materialmente i lavori in questa fase era Antonio da Sangallo il giovane, il cui complicato progetto per San Pietro è conosciuto grazie a un modello ligneo conservato in Vaticano.
Ciò che più affascina nell’affresco del Vasari non è però la realistica immagine del cantiere, bensì l’abbigliamento ideale in cui l’artista presenta Paolo III: i «paramenti maestosi» di un sommo sacerdote israelitico, col mitra-turbante, col «pettorale di giustizia» e con «numerosi campanelli d’oro» sull’orlo della tunica (cfr. Siracide 45, 8-I3). In Paolo III, riformatore e costruttore, i suoi collaboratori vedevano cioè un nuovo Esdra, che come lo scriba-sacerdote dell’Antico Testamento avrebbe purificato il popolo santo e ricostruito il tempio (cfr. Esdra 7-10). Infatti la preghiera pronunciata da Esdra doveva riecheggiare nella Chiesa che allora s’accingeva a purificarsi – «Le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa, la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo» (Esdra 9, 6) – e, ai romani che avevano vissuto l’orrore del sacco del 1527, i lavori sulla basilica vaticana dovevano sembrare (come quelli intrapresi dal popolo israelitico dopo l’esilio babilonese) un ritorno alla normalità. Alla metà del XVI secolo come due millenni prima, il «nuovo tempio» doveva simboleggiare il ristabilimento di un rapporto privilegiato con Dio.
(da T. Verdon, La Basilica di San Pietro. I Papi e gli artisti, Milano, Mondadori, 2005, pp. 117-120)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.