Il libro raccoglie un insieme di saggi pubblicati tra 1946 e 1975, tradotti per la prima volta in italiano e dedicati all’analisi del gioco come concetto filosofico.
Secondo Eugen Fink il gioco rientra infatti tra le categorie fondamentali dell’esistenza umana accanto a morte, lavoro, dominio e amore. Pur trattandosi di concetti poco usuali per la tradizione filosofica, abituata in genere a pensare in termini di ragione, libertà, corpo e spirito, proprio per la loro pervasività appaiono a Fink particolarmente efficaci per condurre un’indagine fenomenologica sull’essere umano. Nello specifico, il gioco ha una dimensione simbolica e cosmica, in quanto creazione di un universo di senso ulteriore rispetto a quello della quotidianità e possibilità per l’uomo di trascendere i limiti della propria finitezza. Nel pensiero di Fink il gioco si presenta, inoltre, come attività grazie alla quale si sperimenta quell’interazione con l’altro che è fondamentale per il sorgere della sfera politica.
Come Fink sottolinea a più riprese, la considerazione del gioco non solo dal punto di vista filosofico, ma anche nell’opinione comune, è ambivalente. Da una parte, il gioco è approvato e riconosciuto come momento di piena espressione dell’essere umano, riflessione riassunta nella frase di Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica per cui l’uomo è tale solo quando gioca. Dall’altra, il gioco tende a essere screditato, ridotto a svago o trastullo, quando non a vera e propria perdita di tempo. L’interpretazione del gioco come pausa dalle altre attività, ben più serie, che occupano l’essere umano, è inevitabilmente superficiale, perché ne fraintende la funzione primaria: esso non è interludio contrapposto al lavoro, ma esercizio di una particolare forma di libertà, apertura di un mondo di fantasia nel quale le regole, i ruoli e le motivazioni sono tutte ancora da definire. L’utilità sociale della finzione è messa in luce da almeno due fenomeni, che Fink analizza in altrettanti saggi della raccolta: il gioco cultuale e il gioco infantile. Nel primo caso, per gioco cultuale (Kultspiel) si intendono tutte le manifestazioni attraverso le quali, soprattutto agli albori dell’umanità, il gioco ha assunto un significato antropologico di partecipazione al rapporto con le potenze demoniche, quindi un ampio spettro di fenomeni che vanno dalle danze sciamaniche ai rituali dionisiaci della Grecia antica.
In queste occasioni era il cerimoniale stesso a dare ai partecipanti la percezione di accedere a un livello più profondo e più autentico del reale: «l’"irreale" diventa il luogo dell’"oltre-reale"». Questa apertura permetteva quindi la realizzazione di una pluralità di intenti, tra cui esorcizzare le paure, indagare il futuro, cercare una comunanza con le divinità o entrare in comunicazione con il mondo dei morti; il gioco si qualificava perciò a tutti gli effetti come un atto fondamentale dell’auto-comprendersi da parte dell’uomo primitivo. Riportando lo sguardo al presente, la questione centrale per Fink diventa che cosa possa celebrare ancora oggi il gioco. I giochi olimpici, ad esempio, esaltano la dimensione corporea dell’uomo, che non è mero accidente rispetto alla componente spirituale. Sviluppare un’adeguata comprensione del problema dell’incarnazione, ovvero della co-appartenenza di anima e corpo, rimane tuttavia a detta di Fink una sfida per i filosofi del futuro.
Così come lo è analizzare i pericoli connessi agli eventi sportivi come fenomeno di massa: l’abbondanza di tempo libero nella moderna società industriale ha creato i presupposti per la creazione di un’immensa fabbrica del consumo del gioco, in cui gli individui finiscono per essere indirizzati o manipolati loro malgrado, proprio laddove dovrebbero esprimere la loro libertà. Il breve scritto dedicato al gioco infantile ne sottolinea la funzione, più che di imitazione, di vera e propria prefigurazione o anticipazione della vita adulta. Riferimento chiave è il passo delle Leggi platoniche, in cui si esorta l’educatore a fornire al bambino piccoli strumenti da lavoro, in tutto simili a quelli veri adoperati dagli artigiani. Questi giochi di ruolo, secondo Fink, segnano il passaggio dai primi stadi dell’infanzia, in cui prevalgono i giochi di movimento finalizzati alla scoperta delle potenzialità del proprio corpo, a una fase più complessa, in cui anche grazie alla mediazione del linguaggio e al ricorso all’immaginazione il bambino struttura la relazione tra sé e il mondo. Se il gioco infantile è sempre esposto al rischio di interpretazioni erronee o forzate, dovute alla distanza che separa l’osservatore adulto dal bambino, rimane comunque un esempio privilegiato per comprendere la caratteristica fondamentale dell’immediatezza. La nostra partecipazione al gioco possiede, infatti, un carattere d’uso: finché vi siamo immersi, vi aderiamo spontaneamente; quando lo sospendiamo per fermarci a riflettere, perdiamo ogni coinvolgimento. Il gioco è oggetto di una pre-comprensione che rifugge l’articolazione concettuale, ma che non implica il ricadere nella «sorda animalità».
I partecipanti al gioco sono del resto pienamente consapevoli della sua natura simbolica, ossia del proprio muoversi all’interno di una cornice di senso costruita artificialmente. Il più complesso e filosoficamente denso tra i saggi che compongono l’antologia è quello dedicato alla «metafisica nietzschiana del gioco». Qui Fink tenta un’operazione per sua stessa ammissione problematica: rileggere l’opera di Nietzsche a partire da un criterio rifiutato dall’autore stesso, vale a dire l’idea tradizionale della metafisica occidentale intesa come interrogazione sull’essere. Secondo Fink, è possibile rinvenire in Nietzsche un’ontologia del divenire che è il cuore della sua filosofia, essendo il presupposto delle sue dottrine dell’oltreuomo, della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’uguale. In quest’ottica, l’ostilità manifestata da Nietzsche nei confronti di Socrate, Platone e Parmenide sarebbe frutto di una cattiva comprensione del loro pensiero. Il culmine di questo fraintendimento si riscontra proprio nell’interpretazione di Parmenide, che secondo Nietzsche avrebbe parlato dell’ente come di un concetto astratto.
Fink argomenta invece, mostrando il proprio debito nei confronti della lezione heideggeriana, che l’essere parmenideo non viene ricavato dall’esperienza mediante astrazione, ma al contrario è una presupposizione, è ciò che precede e rende possibile ogni esperienza. La metafisica contro cui si scaglia Nietzsche è perciò una «caricatura», su cui gravano due pregiudizi: da una parte, la convinzione che tutti i concetti metafisici siano astrazioni; dall’altra, l’idea che essere e divenire nella tradizione occidentale siano due concetti contrapposti. Nel tentativo di superare questi ostacoli, nella Filosofia nell’epoca tragica dei Greci Nietzsche recupera la definizione eraclitea del tempo come un fanciullo che gioca (fr. 52). Il divenire, infatti, scorre eternamente uguale a se stesso e innocente, privo di qualsiasi imputabilità morale, come lo è il gioco di un fanciullo. Anche in Così parlò Zarathustra, dopo la metamorfosi in cammello e leone, l’uomo è chiamato a farsi fanciullo per aderire spontaneamente al divenire e «dire sì» alla realtà. In questo modo, però, Fink ritiene che Nietzsche ritorni nell’alveo della metafisica, elaborando un’ontologia in cui le cose sono perché esistono nel tempo.
Il concetto di gioco cosmico serve perciò a esemplificare il modo stesso in cui accade la legge del divenire, che non può essere più intesa come legge causale, bensì come avvicendarsi continuo di formazione e distruzione. Al pari dell’arte, considerata da Nietzsche una forma sublimata di gioco, anche nell’attività ludica del fanciullo si manifesta dunque l’unità di apollineo e dionisiaco: l’impulso alla perfezione convive con il potere di creare e insieme distruggere. Ne consegue una visione dell’uomo come l’unico animale in grado di dare una parvenza di forma al mondo in base ai propri ideali per poi distruggerla e ricominciare daccapo.
Secondo Eugen Fink il gioco rientra infatti tra le categorie fondamentali dell’esistenza umana accanto a morte, lavoro, dominio e amore. Pur trattandosi di concetti poco usuali per la tradizione filosofica, abituata in genere a pensare in termini di ragione, libertà, corpo e spirito, proprio per la loro pervasività appaiono a Fink particolarmente efficaci per condurre un’indagine fenomenologica sull’essere umano. Nello specifico, il gioco ha una dimensione simbolica e cosmica, in quanto creazione di un universo di senso ulteriore rispetto a quello della quotidianità e possibilità per l’uomo di trascendere i limiti della propria finitezza. Nel pensiero di Fink il gioco si presenta, inoltre, come attività grazie alla quale si sperimenta quell’interazione con l’altro che è fondamentale per il sorgere della sfera politica.
Come Fink sottolinea a più riprese, la considerazione del gioco non solo dal punto di vista filosofico, ma anche nell’opinione comune, è ambivalente. Da una parte, il gioco è approvato e riconosciuto come momento di piena espressione dell’essere umano, riflessione riassunta nella frase di Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica per cui l’uomo è tale solo quando gioca. Dall’altra, il gioco tende a essere screditato, ridotto a svago o trastullo, quando non a vera e propria perdita di tempo. L’interpretazione del gioco come pausa dalle altre attività, ben più serie, che occupano l’essere umano, è inevitabilmente superficiale, perché ne fraintende la funzione primaria: esso non è interludio contrapposto al lavoro, ma esercizio di una particolare forma di libertà, apertura di un mondo di fantasia nel quale le regole, i ruoli e le motivazioni sono tutte ancora da definire. L’utilità sociale della finzione è messa in luce da almeno due fenomeni, che Fink analizza in altrettanti saggi della raccolta: il gioco cultuale e il gioco infantile. Nel primo caso, per gioco cultuale (Kultspiel) si intendono tutte le manifestazioni attraverso le quali, soprattutto agli albori dell’umanità, il gioco ha assunto un significato antropologico di partecipazione al rapporto con le potenze demoniche, quindi un ampio spettro di fenomeni che vanno dalle danze sciamaniche ai rituali dionisiaci della Grecia antica.
In queste occasioni era il cerimoniale stesso a dare ai partecipanti la percezione di accedere a un livello più profondo e più autentico del reale: «l’"irreale" diventa il luogo dell’"oltre-reale"». Questa apertura permetteva quindi la realizzazione di una pluralità di intenti, tra cui esorcizzare le paure, indagare il futuro, cercare una comunanza con le divinità o entrare in comunicazione con il mondo dei morti; il gioco si qualificava perciò a tutti gli effetti come un atto fondamentale dell’auto-comprendersi da parte dell’uomo primitivo. Riportando lo sguardo al presente, la questione centrale per Fink diventa che cosa possa celebrare ancora oggi il gioco. I giochi olimpici, ad esempio, esaltano la dimensione corporea dell’uomo, che non è mero accidente rispetto alla componente spirituale. Sviluppare un’adeguata comprensione del problema dell’incarnazione, ovvero della co-appartenenza di anima e corpo, rimane tuttavia a detta di Fink una sfida per i filosofi del futuro.
Così come lo è analizzare i pericoli connessi agli eventi sportivi come fenomeno di massa: l’abbondanza di tempo libero nella moderna società industriale ha creato i presupposti per la creazione di un’immensa fabbrica del consumo del gioco, in cui gli individui finiscono per essere indirizzati o manipolati loro malgrado, proprio laddove dovrebbero esprimere la loro libertà. Il breve scritto dedicato al gioco infantile ne sottolinea la funzione, più che di imitazione, di vera e propria prefigurazione o anticipazione della vita adulta. Riferimento chiave è il passo delle Leggi platoniche, in cui si esorta l’educatore a fornire al bambino piccoli strumenti da lavoro, in tutto simili a quelli veri adoperati dagli artigiani. Questi giochi di ruolo, secondo Fink, segnano il passaggio dai primi stadi dell’infanzia, in cui prevalgono i giochi di movimento finalizzati alla scoperta delle potenzialità del proprio corpo, a una fase più complessa, in cui anche grazie alla mediazione del linguaggio e al ricorso all’immaginazione il bambino struttura la relazione tra sé e il mondo. Se il gioco infantile è sempre esposto al rischio di interpretazioni erronee o forzate, dovute alla distanza che separa l’osservatore adulto dal bambino, rimane comunque un esempio privilegiato per comprendere la caratteristica fondamentale dell’immediatezza. La nostra partecipazione al gioco possiede, infatti, un carattere d’uso: finché vi siamo immersi, vi aderiamo spontaneamente; quando lo sospendiamo per fermarci a riflettere, perdiamo ogni coinvolgimento. Il gioco è oggetto di una pre-comprensione che rifugge l’articolazione concettuale, ma che non implica il ricadere nella «sorda animalità».
I partecipanti al gioco sono del resto pienamente consapevoli della sua natura simbolica, ossia del proprio muoversi all’interno di una cornice di senso costruita artificialmente. Il più complesso e filosoficamente denso tra i saggi che compongono l’antologia è quello dedicato alla «metafisica nietzschiana del gioco». Qui Fink tenta un’operazione per sua stessa ammissione problematica: rileggere l’opera di Nietzsche a partire da un criterio rifiutato dall’autore stesso, vale a dire l’idea tradizionale della metafisica occidentale intesa come interrogazione sull’essere. Secondo Fink, è possibile rinvenire in Nietzsche un’ontologia del divenire che è il cuore della sua filosofia, essendo il presupposto delle sue dottrine dell’oltreuomo, della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’uguale. In quest’ottica, l’ostilità manifestata da Nietzsche nei confronti di Socrate, Platone e Parmenide sarebbe frutto di una cattiva comprensione del loro pensiero. Il culmine di questo fraintendimento si riscontra proprio nell’interpretazione di Parmenide, che secondo Nietzsche avrebbe parlato dell’ente come di un concetto astratto.
Fink argomenta invece, mostrando il proprio debito nei confronti della lezione heideggeriana, che l’essere parmenideo non viene ricavato dall’esperienza mediante astrazione, ma al contrario è una presupposizione, è ciò che precede e rende possibile ogni esperienza. La metafisica contro cui si scaglia Nietzsche è perciò una «caricatura», su cui gravano due pregiudizi: da una parte, la convinzione che tutti i concetti metafisici siano astrazioni; dall’altra, l’idea che essere e divenire nella tradizione occidentale siano due concetti contrapposti. Nel tentativo di superare questi ostacoli, nella Filosofia nell’epoca tragica dei Greci Nietzsche recupera la definizione eraclitea del tempo come un fanciullo che gioca (fr. 52). Il divenire, infatti, scorre eternamente uguale a se stesso e innocente, privo di qualsiasi imputabilità morale, come lo è il gioco di un fanciullo. Anche in Così parlò Zarathustra, dopo la metamorfosi in cammello e leone, l’uomo è chiamato a farsi fanciullo per aderire spontaneamente al divenire e «dire sì» alla realtà. In questo modo, però, Fink ritiene che Nietzsche ritorni nell’alveo della metafisica, elaborando un’ontologia in cui le cose sono perché esistono nel tempo.
Il concetto di gioco cosmico serve perciò a esemplificare il modo stesso in cui accade la legge del divenire, che non può essere più intesa come legge causale, bensì come avvicendarsi continuo di formazione e distruzione. Al pari dell’arte, considerata da Nietzsche una forma sublimata di gioco, anche nell’attività ludica del fanciullo si manifesta dunque l’unità di apollineo e dionisiaco: l’impulso alla perfezione convive con il potere di creare e insieme distruggere. Ne consegue una visione dell’uomo come l’unico animale in grado di dare una parvenza di forma al mondo in base ai propri ideali per poi distruggerla e ricominciare daccapo.