Nell’ultimo quarto di secolo ognuno di noi è stato testimone, protagonista e vittima di enormi e decisivi cambiamenti. Un mondo che sembrava deciso una volta per tutte è finito, svanito in un soffio d’aria, questo lo sappiamo, un altro mondo si è avviato, ha già assunto molte forme contraddittorie e non sappiamo dove andrà a parare. È la storia» (p. VII). Dopo la fortuna de I monaci di Cluny (la cui ultima edizione è del 2006) e di Principi e corti. L’Europa del XII secolo (1997), Glauco Maria Cantarella, riprende in mano la sua penna di storico del Medioevo – sempre per i tipi di Einaudi – per scrivere di fine del mondo. La veste proposta, quella di Manuale, ci riporta direttamente al cuore dell’anno Mille: manualis è forma tipica del vocabolario antico della trasmissione del sapere che fonda le radici prime del suo etimo nel greco encheiridios, -on, “tenuto in mano”. Anche per il musico l’orizzonte di “scienza dell’anima” è solcato da una Musica enchiriadis e l’apprendimento della solmisazione affidato alla celebre mano armonica o guidoniana. Per il lettore moderno un libro – ironico a tratti e sempre coinvolgente – che si presenta agevole, “pronto uso”; ma pure ampio ed esauriente. Che ne è stato dell’anno Mille? è passato, tutto qui. Non c’è stata la catastrofe che avrebbe dovuto esserci, non ci sono stati segni divini particolarmente fiaccanti, ardenti, decisivi (p. 3). Eppure ancora l’anno Mille non è stato inventato, a ciò penserà la Controriforma: è qui infatti che si riscrive la storia, «si inventa il Medioevo come millenario specifico, trionfante o di perdizione a seconda dei punti di vista, si interpretano le fonti. Alla luce del presente. Come sempre» (p. 4). «Que reste-t-il?», cosa rimane allora della fine del mondo?
La storia è fatta di cerniere, si sa. Nell’unica, grande del passaggio dal mondo tardo-antico e primo medievale a quello tardo-medievale e moderno, Cantarella ne individua quattro. La prima pone il problema della rifondazione della storia dell’Impero romano e del papato a partire dalla figura di Ottone III, il nuovo Costantino chiamato a riconoscere, sulle basi del diritto romano, l’operato di colui che, secondo la tradizione, avrebbe composto la famosa Ordinanza (Constitutum Constantini, un clamoroso falso storico composto, in realtà, a Roma tra i secoli VIII e IX). Intanto il rapporto fra potere centrale e città italiane si fa sempre più critico sul terreno della giurisdizione e del menare la «cosa pubblica», come insegna l’episodio di Pavia – di poco precedente l’assemblea di Costanza (6 giugno 1024) – narrato da Wipone, circa la proprietà del palazzo regale (p. 15 ss.). L’esigenza che si avverte maggiormente è quella di cercare di fissare l’ordine del mondo; impresa assai ardua questa, a cui però sembra non venire meno il vescovo di Laon nel richiamare la società dei tre ordini: «ora pregano, altri combattono e altri lavorano» (p. 23). Non tutto è così semplice. A Cluny, in particolare, si sviluppa uno dei più imponenti centri europei della vita monastica e del potere religioso, una falla nella maglia diocesana in cui l’immagine del perfetto cluniacense è tanto quella – asessuata e purissima propugnata da Odilone – di angelo, di colui che “canta” la morte come «preghiera in musica» (p. 33), quanto quella di monaco guerriero, «cavallo da guerra del Cavaliere Celeste» (p. 29) che si batte per la salus animarum del popolo dei fedeli. E non solo. La sede romana? Emana sentenze di cui nessuno può dubitare né mettere in discussione, «nemmeno i papi» (p. 40).
La seconda parla di un’altra scrittura della versione ufficiale della storia – nondimeno, come pare spesso inevitabile in questi casi, di una speculare damnatio memoriae – quella compiuta a Montecassino, un’operazione che vede protagonisti non solo le vicende dell’abbazia, ma anche quelle dei Normanni, gli «unici veri giusti […], i nuovi ebrei, l’Italia meridionale è la loro Terra Promessa» (p. 58). Tra questi milites christiani si distinguono per la loro particolare violenza i Canossa. Una storia tra continuità e rottura in cui, naturalmente, anche i santi si schierano militarmente a seconda dell’orientamento di chi li invoca. La voce, carica di lucido e velato entusiasmo, di uno dei signori della parola del Medioevo, Pier Damiani, tenterà di proporsi come trait d’union fra Cluny – sempre più aula imperialis, forte di una ideologia propria – e Montecassino per purificare un mondo, quello degli ecclesiastici, «infettato dai sodomiti» (p. 82). La riforma delle chiese tedesche investe anche Roma: restaurare la legalità dove la legalità non c’è mai stata, finirà per essere una rivoluzione. Anche il papato, da Leone IX a Gregorio VII (quest’ultimo innegabilmente cluniacense), conoscerà il fenomeno dell’«invenzione del passato», del suo passato: grazie al privilegio concesso da Cristo solo a Pietro, ed elaborato in collezioni canoniche (futuris haereditandum […] ut aliis praemineret) come quella di Burcardo di Worms, e alla riflessione sull’apostolicità si giunge nel 1059, tra gli entusiasmi di una legislazione del tutto emergenziale, a un accordo, il Decretum in electione papae. Perché, più in generale, «l’invenzione della Chiesa cattolica è frutto della politica, delle sue contingenze e dei suoi espedienti» (p. 105).
Nella terza cerniera lo sguardo è volto ai nuovi regni di Inghilterra e Spagna, alla “creazione” della Terrasanta e, in particolare, alla dura lotta per le investiture. È l’età degli antivescovi, di Urbano II e Clemente III e di uno stato di emergenza che, in nome della necessità e dell’opportunità, imponeva a Roma la politica della interpretatio, strumento essenziale per l’affermazione del primato del pontefice e della sua infallibilità nel dettare la norma. La Sede Apostolica è l’unica vera legge e «ubi papa ibi Roma» (p. 258). Si respira, forse, già l’aria continentale di Avignone. La sacralità del gesto anima il rituale del conferimento dei regalia, i diritti pubblici: il documento del 1111 «sovvertiva tutto» (p. 163). Eppure, direbbero i Gattopardi, se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Ma è anche il tempo della retorica come arte della comunicazione e di una libellistica che apre via via alla dialettica, al rifiorire della filosofia.
Protagonisti sulla scena del quarto e ultimo atto dell’opera di Cantarella sono i Comuni. Cosa significava questa «parola nuova e pessima»? A fondamento di tali «cose gestite in comune: dunque un equivalente di res publica» (p. 249) non si pone un mero atto di ribellione, bensì una vera e propria coniuratio, un “giuramento comune” che cerca la propria legittimazione nel diritto romano. E tra le maglie dello ius iurandum si cela, pur sempre, Dio. Le geografie cambiano e il potere si avvale di una struttura che non vanta precedenti, la burocrazia: sarà l’Europa delle grandi Assise. A Bologna sorgono i primi studi di diritto: l’università, come scrisse lapidariamente Carducci, «nacque e grandeggiò privata»; l’esperienza dell’insegnamento attraversa una cultura politica – ma, prima ancora, letteraria – nuova, quella cortese. Anche la canonistica offre i suoi frutti più raffinati alle esigenze del tempo grazie alla raccolta di un monaco camaldolese che serba nel cuore il fuoco dirompente del principio gnoseologico di Anselmo: una fides quaerens intellectum. È la monumentale Concordia discordantium canonum, subito ribattezzata Decretum: «Graziano inventa il professore universitario perché gli dà, letteralmente, voce» (p. 325). Per chiudere, l’Autore dedica un “postludio” fugace su storia e teatro. Alla storiografia «il compito di sottolineare le differenze e i dolorosissimi percorsi» (p. 335).