Spettri di Nietzsche

Un'avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento


In una lettera del 12 ottobre 1886 scritta da Ruta Ligure e indirizzata all’amico Franz Overbeck – lo storico della Chiesa conosciuto a Basilea che gli resterà vicino fino agli ultimi giorni di lucidità – Nietzsche si augura «che ci voglia ancora un po’ di tempo» prima che si arrivi alla sua «comprensione» e che, meglio di tutto, sarebbe se ciò avvenisse dopo la sua morte. Con riferimento alla pubblicazione di Umano, troppo umano, Nietzsche confessa quindi il suo timore più profondo, ovvero «di essere stato troppo esplicito», e di aver svelato se stesso troppo presto, giacché le circostanze storiche necessiterebbero di «ancora un gran numero di premesse educative» per poter infine «allevare» i suoi propri lettori, ossia, prosegue sempre nella lettera, «lettori cui sia consentito guardare in faccia i miei problemi senza restarne schiacciati». Il riferimento è alla recensione di Al di là del bene e del male scritta dal critico Joseph Viktor Vidmann, pubblicata sul numero del 16-17 settembre 1886 del quotidiano «Der Bund» di Berna, da lui diretto. Come è noto, per la sua recensione a Nietzsche Vidmann impiegò un titolo assai indicativo, Il pericoloso libro di Nietzsche, paragonando il contenuto del libro alla «dinamite» che allora veniva trasportata dai treni per la realizzazione del tunnel del San Gottardo, sui quali veniva posta una bandiera nera per segnalare il pericolo. Sempre nella recensione, Vidmann non si esime dalla responsabilità di mettere in guardia sulle implicazioni politiche dell’argomentare assai critico di Nietzsche contro la cultura democratica e socialista. E non è un caso che lo stesso Nietzsche, sempre a proposito di Al di là del bene e del male, in una lettera alla sorella del 3 novembre 1886 abbia scritto: «Lo si proibirà, mi sembra già di vederlo». In una lettera del 23 maggio 1888 – questa volta scritta a Torino e indirizzata al critico letterario danese di simpatie socialiste Georg Brandes, ammiratore, come è noto, del suo «radicalismo aristocratico» – Nietzsche scrive: «È forse perché ho vissuto troppo a lungo a un passo dalla morte che non riesco più ad avere occhi per le belle possibilità?». Negli anni Sessanta del secolo scorso, lavorando all’Archivio Nietzsche di Weimar – che dai clamori celebrativi del Terzo Reich di Hitler passò al silenzio della DDR di Honecker – il serio e paziente lavoro filologico condotto da Mazzino Montinari e da Giorgio Colli ha fatto sì che si sia potuto e si possa ancora leggere Nietzsche in un’edizione critica completa delle opere e dei frammenti postumi, edizione che rappresenta tuttora lo strumento di lavoro principale per gli studiosi di Nietzsche in ogni parte del mondo. Maurizio Ferraris, in questo suo ultimo libro dal titolo particolarmente evocativo, Spettri di Nietzsche. Un’avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento, ripercorre «come un fiume» i momenti e i luoghi del lungo travaglio intellettuale di Nietzsche, il quale, «diversamente da tanti altri», «è riuscito a farsi ascoltare, con la forza di uno stile sproporzionato e shakespeariano che ripete, a cent’anni di distanza, il miracolo delle Confessioni di Rousseau» (p. 202). Consapevole che «tutto si sedimenta in una sequenza che ha luogo a Röcken», il paese natio di Nietzsche (p. 208), Ferraris intreccia con forza espressiva fonti biografiche, testimonianze storiche, testi editi e materiale postumo, ricostruendo sapientemente l’«avventura umana e intellettuale» di un Nietzsche a tratti «spettrale» perché, come recita il sottotitolo del volume, porterebbe la responsabilità di aver «anticipato» «le catastrofi del Novecento». La dettagliata ricostruzione di Ferraris vuole essere storica, ma di una storia che, passando attraverso la biografia «totale» di Nietzsche, acquisisce progressivamente il carattere di un vero e proprio mito polemico, giacché «fuori delle trincee la volontà di potenza», così si legge nelle prime pagine del libro, è soprattutto «volontà di presenza» e «ansia di riconoscimento» (p. 15). Nietzsche incarnerebbe dunque – a causa della reiterata esperienza di un mancato riconoscimento – «una caratteristica essenziale della modernità», ovvero «l’aspirazione collettiva a essere straordinari, la ricerca universale di distinzione e di superiorità, l’esigenza fisica di dar voce a questa unicità, di esprimerla, di urlarla» (p. 15). Ferraris prosegue nella sua fine argomentazione spiegando, con un richiamo a Hegel, che «è un po’ come se, nella Fenomenologia dello spirito, il servo accettasse di continuare a servire, a patto di diventare famoso quanto o più del signore» (Ibid.) e che Nietzsche, da «spirito che sempre nega», trasforma la sentenza hegeliana «dio è morto» nell’«"orgia sacra" che viene dall’Oriente» (p. 63). In Nietzsche, dunque, abbiamo proprio tutto. Se restiamo vincolati a tali assunti – imprescindibili, se siamo disposti a leggere Nietzsche armati di pazienza e di sano realismo – è possibile comprendere sia perché «il Maestro della volontà di potenza, seguendo una pulsione che potremmo chiamare di eros, si spinge all’autoaffermazione e alla catastrofe», sia perché «il Maestro dell’eterno ritorno, radicalizzando la pulsione di morte o quantomeno l’ansia di controllo, vuole trasformare il contingente in necessario» (p. 21).
Secondo Ferraris, è proprio l’esperienza della morte e dell’«indicibile orrore»  – come Overbeck scrive con lucidità il 15 gennaio 1889 nella lettera da Torino inviata a Peter Gast, nella quale descrive un Nietzsche ormai prossimo al tracollo – a fare da principio regolatore dell’«avventura umana e intellettuale» di Nietzsche, tra «molti spostamenti, soggiorni anche relativamente brevi, piccole vacanze, e attenzione al portafogli» (p. 23). Dopo la perdita del padre per una malattia al cervello, dopo il pensionamento da Basilea nel 1879 a trentacinque anni e a seguito del convinto allontanamento dalla madre e dalla sorella a causa della «disharmonia praestabilita» (cfr. p. 209), per una sorta di «desublimazione repressiva» di ogni speranza di guarigione, la morte resta quel dato inemendabile grazie alla cui rimozione si sono potuti produrre in Nietzsche tanto le suggestive «visioni», tanto gli inaggirabili «enigmi» di Zarathustra, quanto i fuochi d’artificio della «volontà di potenza», un’opera mai realizzata. Se da un lato, come ricorda Ferraris, quest’ultima è una «pseudo-opera» (p. 36), purtuttavia, non solo per una sorta di cinismo del destino, «è stata uno dei libri (e degli slogan) più influenti nel secolo scorso» (p. 25), ragion per cui molte delle considerazioni svolte da Nietzsche all’insegna di tale slogan non possono essere ritenute «un falso contrario allo spirito e alla lettera di Nietzsche, come pure si è sostenuto più spesso di quanto non si creda» (p. 36). Mentre su ben altri livelli dalla mera speculazione filosofica – livelli, in taluni casi, umani, troppo umani (basti pensare a D’Annunzio e a Mussolini) – alcune ricezioni novecentesche degli «spettri» di Nietzsche hanno stabilito un legame troppo stretto, come attestato dalla lista delle varie edizioni della «volontà di potenza» a partire dal 1901, tra l’esperienza del nulla e la «guerra totale», perché più che ad un Nietzsche filosofo dell’interpretazione si è preferito dar voce, come accade in Baeumler, ad un «Nietzsche filosofo e politico». Se, da un lato, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, il pragmatista neo-hegeliano Josiah Royce discute le tesi di Nietzsche nel mondo accademico nord-americano evidenziando la necessità di comprendere il contesto comunitario in cui va a collocarsi ogni individuo, l’epoca «iper-politica» come il Sessantotto, facendo di Nietzsche l’alfiere della «rivoluzione desiderante», sembra aver contribuito a quel «ritorno alle Madri» su cui Ferraris si sofferma anche in altre occasioni, quando parla, ad esempio, di un Wagner «anticipatore» di Marcuse (Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 17). Volendo procedere oltre un mero «conflitto delle interpretazioni», Ferraris pone un interrogativo che non può non far riflettere tutti quegli studiosi che intendano fare un bilancio rigoroso e disincantato non solo della «fortuna» controversa di Nietzsche, ma anche del suo pensiero: «Come è possibile – commenta Ferraris – che chi ha coltivato l’idea della volontà di potenza, e che nelle opere pubblicate quando era padrone di sé ha predicato contro l’uguaglianza, l’umanità, gli "operai della filosofia" (Kant e Hegel) e gli operai senza virgolette, sia stato anche considerato un profeta della liberazione, accanto e oltre a Marx?» (p. 27). E più avanti: «Come è possibile che Nietzsche abbia potuto affascinare, e con motivi non così peregrini, la sinistra?» (p. 44). Il punto di maggiore problematicità nella ambivalente ricezione di Nietzsche, consiste in larga misura negli accostamenti ossimorici delle sue tesi a figure contrastanti come Marx o Sade, ma pure Freud – il quale, ricorda sempre Ferraris, con una «monumentale denegazione», «sostenne di non aver voluto leggere Nietzsche affinché le sue dottrine filosofiche non condizionassero le ricerche scientifiche condotte col metodo psicoanalitico» (p. 178) – mettendo così in scena una sorta di «cavalcata delle valchirie tra metafisica, surrealismo e politica». A tal proposito, Ferraris richiama il libro di Hugo Bund, Nietzsche come profeta del socialismo del 1919, per mostrare come nel «cielo delle idee», in un coup de théâtre dopo l’altro, molte letture di Nietzsche hanno contribuito, in Francia (ad esempio con Foucault e Deleuze) ma pure in America (Kaufmann), a mettere in dubbio il fatto che Nietzsche, «in tutte le sue contraddizioni e antitesi», resti davvero «lo stesso» (p. 33). Tra gli interpreti tradizionali di Nietzsche – Ferraris lo mette in chiaro con decisione – Lukács resta tra quelli che hanno mantenuto salda la vista, allorquando, con i suoi «buoni occhi», sottolineava che Nietzsche «ha fatto di tutto per screditare, dal punto di vista del pensiero, l’idea della uguaglianza tra gli uomini» (p. 44). Il richiamo alle tesi di Lukács consente a Ferraris di mostrare perché in molti intellettuali falsamente vicini alla causa proletaria lo «spettro» reale del comunismo di Marx si sia facilmente confuso con gli «astratti furori», gli «intenerimenti letterari», ma anche con l’«insofferenza narcisistica» tipici del «ribellismo antiborghese», o piuttosto di un «attivismo da biblioteca» (pp. 44-45).
In questa cornice segnata dal disincanto e della banalità del male, la «profezia» del 10 giugno 1887, annunciata da un Nietzsche che parla da Lenzerheide della «volontà del nulla» dei «disgraziati» destinati, per una specie di banalità del male capovolta, a distruggere, sembra proprio confermare quella previsione del Lukács, laddove «lo sguardo del forte» guarda alle «catastrofi del nichilismo europeo» forse con l’intimo sospetto «che la favola del nichilismo narri proprio di lui» (p. 50). Ma come è possibile, si domanda di nuovo Ferraris, «che questo stato d’animo, e il suo correlato oggettivo, prenda il nome di nichilismo»? Questa volta la risposta viene rinvenuta a monte e non più a valle, nella «fallacia trascendentale» di Kant, ovvero nella confusione tra l’ontologia e l’epistemologia, tra ciò che c’è e tra ciò che noi, come soggetti pensanti, diciamo di sapere. Affinché il mondo non dipenda più da un «soggetto-vampiro», occorre compiere una restaurazione copernicana: invece di chiedersi come le cose devono essere fatte per venire conosciute da noi, occorre domandarsi piuttosto come siano in se stesse. Una tale restaurazione del primato ontologico della realtà su quello assiologico e epistemologico dell’«io penso» consentirebbe di vincere lo stato d’animo sul quale peraltro si è costruita molta letteratura (pensiamo a Thomas Mann) e molta filosofia (ad esempio Schopenhauer). La «melanconia occidentale» diventa una vera e propria «sindrome», che Ferraris dal piano estetico-letterario (vedi Dürer) riporta a quello più strettamente medico-biologico, ragion per cui l’«umor nero», a causa dell’inemendabilità biologica della morte, nell’interiorità dell’io finisce per diventare «un’altalena bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto» (p. 54). A tratti Nietzsche pare di esserne consapevole di tale primato ontologico del pensiero sulla realtà, come si legge in un frammento dell’inizio 1881: «Un mondo senza soggetto – è possibile pensarlo? […] La possibilità che il mondo sia simile a quello che ci appare non è affatto eliminata, quando riconosciamo i fattori soggettivi. […] Se si elimina col pensiero il nostro mondo umano – resta quello delle formiche. […] Sì, – conclude Nietzsche – il valore dell’esistenza dipende dall’essere senziente». Paradossalmente, è proprio traendo linfa e risorse da un tale primato del pensiero sulla realtà che Nietzsche, seppur come singolo individuo, «ha pensato di porsi come universale e necessario», riuscendo «a essere inevitabile e ossessionante come uno spettro» (p. 219). Ciò è stato possibile perché Nietzsche, nella sua «moderna disperazione», ha saputo trarre le estreme conseguenze proprio da quel Geist che, già in Hegel, mentre vincola normativamente il pensatore ad una realtà storica e sociale, gli restituisce nel contempo, durante ogni «accesso privilegiato» all’interiorità, una «indicibile» fedeltà a se stesso.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2014
Recensito da
Anno recensione 2015
ISBN 9788860886538
Comune Milano
Pagine 266
Editore