La filosofia tedesca. 1760-1860

L'eredità dell'idealismo


Al termine della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), il Trattato di Vestfalia del 1648 consentì alla Germania di sopravvivere al clima lacerante delle guerre di religione che, per più di un secolo, alterarono profondamente l’assetto politico europeo, realizzatosi, a partire dal Trecento, con la nascita dei grandi Stati nazionali. A seguito delle guerre tra protestanti e cattolici, la Germania fu suddivisa in una serie di principati posti sotto il potere – oramai del tutto formale – del Sacro Romano Impero. All’inizio dell’età moderna, l’espressione "Germania" non denotava dunque un’entità culturale comune. Quando nel 1781 esce la prima edizione della Kritik der reinen Vernunft di Kant, a Königsberg si costituisce un centro dell’illuminismo scozzese e inglese a causa del coinvolgimento della Gran Bretagna nel commercio baltico di legname. È in questa cornice che la «filosofia tedesca» giunge al culmine della sua incidenza storica, condizionando il modo in cui – non solo gli europei ma anche i cittadini di altri paesi civilizzati – concepiscono se stessi sia in rapporto alla natura e alla cultura, sia alla politica e alla religione. Sulla base di queste premesse storiche, Terry Pinkard – esponente di punta della Hegel-Forschung americana contemporanea – in questo suo libro del 2002 tradotto in Italia nel 2014, La filosofia tedesca 1760-1860. L’eredità dell’idealismo, ci invita ad una lettura "retrospettiva" in special modo di Kant e di Hegel, per invertire, se è il caso, il percorso «da Hegel a Nietzsche» descritto con molto acume da Karl Löwith. Se, dal canto loro, alcuni interpreti hanno infatti accostato la Phänomenologie des Geistes di Hegel alla Divina commedia, definendo persino il testo come «un annuncio della morte di Dio» (p. 267), l’obiettivo principale dello studio di Pinkard consiste nel risolvere, attraverso Hegel, il «paradosso kantiano» dell’auto-legittimazione. Ripercorrendo con attenzione la parabola discendente che da Kant scade nella «moderna disperazione» di Schopenhauer e Kierkegaard (ma anche di Wagner e Nietzsche), Pinkard indaga le ragioni che hanno consentito prima a Kant e ai suoi seguaci romantici (come Hölderlin, Novalis, Schleiermacher e Schlegel), poi a Fichte, Schelling e Fries, ed infine all’idealismo oggettivo di Hegel, di conquistare la scena culturale europea e oltre per più di due secoli, arrestando il fenomeno corrosivo del «nichilismo» che Friedrich Heinrich Jacobi coniò in una lettera a Fichte del 21 marzo 1799, accusando quest’ultimo e Kant di aver idealizzato le «vuote forme dell’immaginazione». Mettendo in dubbio l’immagine proposta da Madame de Staël nel 1810 di una Germania «apolitica», luogo di poeti e filosofi esclusivamente monologanti, Pinkard recupera la prospettiva sociale della dialettica hegeliana, valorizzando proprio la novità rappresentata dall’introduzione graduale del pensiero illuminista – proveniente in larga misura dalla Gran Bretagna e dalla Francia – nel contesto culturale e politico tedesco (p. 7). Egli si interroga anche sulla Bildung, ossia su come è possibile vivere intelligentemente e dotati di buon gusto in un contesto sociale rischiarato dal realismo della ragione. Ad ogni modo, il punto che a Pinkard interessa maggiormente sottolineare è che questo ideale illuministico di autodisciplina si intrecciò anche con altre linee interpretative che privilegiavano persino la religiosità, il misticismo o il sentimento, tendenze che torneranno al centro di molte filosofie tardo-ottocentesche, contribuendo ad una messa in crisi del pensiero sistematico. A partire dalla seconda metà del Settecento, l’interesse crescente per la questione relativa a che cosa potesse davvero corrispondere una persona in generale, diventò ben presto un dilemma pratico ed esistenziale che spinse molti giovani intellettuali tedeschi – i quali gravitavano nell’ambiente conformista delle corti e della burocrazia – ad interpretare il mondo secondo le categorie che siamo soliti ascrivere alla modernità, a tal punto che la Germania, osserva con lucidità Pinkard, «finì così per trovarsi in una situazione rivoluzionaria, anche se in realtà nessuno faceva appello alla rivoluzione» (p. 15). L’influenza di Rousseau e di Goethe su questa generazione di intellettuali – in particolar modo col culto del sentimento e della sensibilità alla luce della critica alla civilizzazione – è fuor di dubbio. Ma è proprio Kant, «il giacobino della filosofia» come lo definì Heinrich Heine, ad inaugurare il percorso di emancipazione dell’umano culminante nella Rivoluzione francese del 1789. Da Kant in avanti, il soggetto autocosciente – facendo tesoro «delle energie scatenate dal Werther» – inizia così a dipendere da se stesso e dalla propria capacità critica di comprendere le cose (pp. 103-107). Pinkard mette in evidenza la novità rappresentata proprio dalla pubblicazione della prima edizione della Kritik der reinen Vernunft (1781), allorché la filosofia «cominciò a rivestire e recitare un ruolo guida nell’immaginario individuale e collettivo» e «mentre i vecchi valori perdevano la loro presa sulla nuova generazione, i giovani cominciavano a sentirsi attratti da qualcosa di diverso: volevano vivere le loro vite, non quelle dei loro genitori o dei loro nonni» (pp. 257-258).
Mediante l’impiego del concetto di «trascendentale», lo studio kantiano dei «giudizi», delle «intuizioni pure», dei «concetti» e delle «idee della ragione», stabilisce che l’esperienza umana deriva dall’unione dell’attività spontanea della mente con le sue facoltà passive, dipendendo in larga misura da un’attività che si produce da sé e che può trovare un punto di appoggio nell’«unità sintetica dell’appercezione» (p. 39), così pure nel postulato dell’immortalità dell’anima, giacché «il raggiungimento effettivo del sommo bene richiede una quantità di tempo infinita» (p. 77). Ciò detto, entro la cornice delle leggi naturali, l’autonomia e l’ordine morale mostrano che l’esperienza umana dipende dal grado di libertà di cui il soggetto può disporre «in proprio» come «individuo virtuoso», nel momento in cui quest’ultimo è chiamato a deliberare i criteri normativi non solo per produrre giudizi pratici e perseguire «fini giusti», ma anche per compiere azioni in qualità di cittadino deliberante (p. 58 e p. 73). Nella puntuale ricostruzione di Pinkard, le strategie messe in campo dal pensiero post-kantiano sono orientate a raddrizzare il «legno storto» dell’umanità, mettendo in risalto, da un lato, la «presunzione dell’illuminismo» con Jacobi, il quale entra nel dibattito sullo spinozismo per rivoluzionare dalle fondamenta il pensiero di Kant (p. 115); dall’altro, con Reinhold, il quale, diversamente da Jacobi, ricostruisce il pensiero di Kant, offrendogli «quella forma scientifica di cui lo riteneva carente» (p. 121). A partire dal 1794, le sedici versioni della Wissenschaftslehre di Fichte, successore di Reinhold e in linea con Kant, fanno sì che la riflessione filosofica diventi un vero e proprio work in progress sull’autocoscienza (pp. 132-133), elaborato attorno alle nozioni di «intuizione intellettuale» e di «autonomia» nell’atto di porre normativamente se stessi e di autorizzarsi ad attribuire a sé quella posizione (p. 143). Dal canto suo, Schelling (che dopo la morte di Hegel, sarà chiamato nel 1841 all’università di Berlino, a tutti gli effetti per sostituirlo) assimila la rielaborazione fichtiana di Kant coniugandola con Spinoza, formulando la distinzione tra soggettivo e oggettivo nei termini di un «assoluto», ma tale distinzione, come bene sottolinea Pinkard, può essere raggiunta solo da una forma di intuizione, ossia da una «visione» profonda delle cose facente capo ad un Io che sta «a cavallo della linea di confine tra esperienza soggettiva e mondo oggettivo» (pp. 212-213). In questo quadro, già l’uso schellinghiano del concetto di Geist definisce «la mente o "spirito" nel senso collettivo del termine», «per giungere infine all’autocoscienza, all’intuizione intellettuale di sé» nella storia e nella natura (pp. 220, 228-229). Lungo questo vettore, la revisione del sistema kantiano operata da Fries – attraverso Jacobi e in linea con la difesa della scienza newtoniana – rappresentò un buon compromesso tra la metafisica pre-kantiana e l’idealismo post-kantiano, orientato a definire tanto una filosofia della mente e della conoscenza che una teoria della morale e della politica che tuttavia precipita nell’abisso dell’antisemitismo (p. 253). In un siffatto contesto, tra gli idealisti post-kantiani, Hegel riveste un ruolo centrale. Il suo itinerario intellettuale mostra infatti che l’ideale rivoluzionario avrebbe preso corpo non solo nella mente ma anche nel mondo. Pinkard dà molto risalto alla Phänomenologie hegeliana e alla Logik, ossia al punto di vista storico-sociale e a quello teoretico, per mostrare come la risoluzione hegeliana del paradosso kantiano consiste, in larga misura, nel considerare anche la mente e le funzioni dell’intelligenza in termini «sociali», poiché il Geist è «una questione di socialità, non di coscienza o certezza individuale né di desiderio, e nemmeno di mera coordinazione di prospettive tra loro in competizione» (p. 275). Tenendo presente la grande svolta operata da Kant, anche ad Hegel va riconosciuto il merito di aver fatto i conti con le esigenze del mondo moderno (ossia con la Rivoluzione francese), convincendo persino «una larga parte del mondo intellettuale che la storia della filosofia altro non era stata che un graduale sviluppo verso la sua concezione, e che tutte le diverse tendenze di pensiero all’opera nella storia della filosofia si erano infine risolte in modo soddisfacente nel quadro del suo sistema» (p. 261). Hegel ha avuto inoltre il merito di delineare quello che Wilfrid Sellars chiama un logical space of reasons, nel quale, in molti casi, dovrebbe decidersi quello che Hegel chiama Weltlauf, il corso del mondo. Sappiamo bene che spesso ciò accade, giacché, come ricorda Hegel nello scritto sulla Differenz, quando la «potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro reazione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia». La filosofia – Pinkard sottoscrive a pieno questa considerazione hegeliana – è ancora una risposta ai bisogni dell’uomo, laddove l’«interno» resta in opposizione con l’«esterno», e ciò accade in particolare nei tempi di «scissione», nei quali il soggetto perde la capacità di essere autonomo e auto-legiferante. Il riconoscimento non solo delle norme ma anche della contrapposizione tra «fatti» e «norme», per dirla con Habermas, impone al soggetto legiferante il compito di potenziare la funzione riflessiva che fa capo ad un’«autocoscienza universale» e «condivisa» (pp. 270-271). Per poter assolvere a tale funzione, occorre che l’agente non si regoli soltanto sul desiderio ma che sia in grado di dare forma ad un progetto che questi riconosce come suo, a partire da una relazione negativa con sé stesso (p. 271). Questo è, in larga misura, il punto di maggiore vicinanza di Hegel con la posizione di Nietzsche: «ciò che "essenzialmente ci riguarda" in quanto soggetti agenti, è la libertà in questo senso radicale (per esprimersi in termini non propriamente kantiani, non ci sarebbe alcuno scopo nelle nostre vite, qualora esse non incarnassero questo genere di libertà)» (p. 272); la volontà allora «impone a se stessa questa legge» e «deve farlo per una ragione (altrimenti sarebbe priva di legge)», deve perciò «imporre a sé questa legge per una ragione che allora non può essere a sua volta auto-imposta (poiché essa è necessaria per imporre qualunque altra ragione)» (Ibid.). Certo, la via d’uscita kantiana da questa impasse, chiamando in causa «il fatto della ragione», non può più soddisfare Hegel, allorché questi «concepisce il "paradosso kantiano" come il problema principale che tutte le filosofie post-kantiane devono risolvere» e, per risolverlo, Hegel non fa altro che impiegare il termine aufheben, «nel triplice significato di "abolire", "conservare" ed "elevare"» (Ibid.), ma inquadrando sempre il soggetto agente (e qui sta il punto di massima distanza da Nietzsche) in termini «sociali». La dinamica del riconoscimento (o del mancato riconoscimento, come è accaduto a Nietzsche finché è rimasto in vita), mostra molto chiaramente che la storia è tutto un riproporsi di rapporti (anche se non sempre identificabili) di signoria e servitù (ciò accade fino ai giorni nostri), di autori di leggi e di agenti soggetti a queste stesse leggi (p. 274). Ancora oggi, come in passato, per poter far sì che il servo obbedisca, il padrone deve ricorrere alle strategie di automitizzazione, facendo della sua volontà persino un vero e proprio lifestyle, per «condurre da sé la propria vita» nel senso di Kierkegaard. Così, anche il «pessimismo romantico» di Schopenhauer, avversario di Fichte, Hegel e Schelling, mostra chiaramente come, anche dietro la scoperta mistica della «cosa in sé», si celi la presenza più ingombrante di un io corporeo che fa ancora problema a se stesso, in uno sforzo conoscitivo senza fondo (pp. 402-416). Il ragionamento ci porterebbe molto lontano, ma per concludere, ci limitiamo ad osservare che ogni servo – nello «spazio sociale della ragione» e nella storia – sembra non disporre ancora di altra chance fuorché del diritto di assoggettamento alla legge del padrone che egli si è scelto o che altri gli hanno imposto, per arrivare a comprendere, in nome del Geist (cfr. pp. 331-336), che cosa significhi davvero essere un «legislatore» (p. 275). Quest’ultimo è fuor di dubbio un punto doloroso della relazione riconoscitiva perché può portare al collasso morale e politico dello «spirito oggettivo», se non alla catastrofe, come si è visto accadere nei periodi bui del «secolo breve». Detto con una formula più secca, è la «banalità del male». Tra i post-kantiani chiamati in appello da Pinkard nell’«attività "infinita" del dare e richiedere ragioni», Nietzsche è ancora attuale nella sua «moderna disperazione», perché, come l’elefante di Husserl che sorregge il mondo, sarà costretto a portarsi Hegel sulle spalle ancora per molto tempo.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2014
Recensito da
Anno recensione 2015
ISBN 9788806215781
Comune Torino
Pagine 470
Editore