In linea con l’equilibrio tra ricerca antichistica e riflessione storico-politica sul presente che ha informato la produzione di Luciano Canfora sin dalla fine degli anni Settanta, La crisi dell’utopia è un’opera estesa e densamente articolata, che si sviluppa lungo due direttrici soltanto apparentemente parallele: da un lato, rigorosa e profonda indagine filologica; dall’altro, ricerca di legami fecondi e problematici – mai di facili corrispondenze – tra la teorizzazione e la ricezione dell’utopia politica nel mondo antico e l’ascesa e il declino delle dottrine socialiste in quella fase della contemporaneità conclusasi ormai un quarto di secolo fa. Non pare avventato ritenere che il punto di incontro di queste due differenti linee di ricerca possa situarsi storicamente solo al di là dei rispettivi oggetti di analisi – ovvero cronologicamente oltre il fallimento o l’estinguersi della teoria politica presa in esame nel volume («oggi quel movimento mondiale non esiste più», si legge a p. 370 in riferimento al socialismo e al comunismo del XX secolo). E d’altronde una tale lettura sembra suggerita già nel titolo, in ragione dell’impiego del termine crisi: accanto al significato in uso nelle lingue contemporanee, esso pare rimandare irresistibilmente all’etimo greco, ove krisis designa a un tempo il verdetto nel lessico giuridico e il momento in cui – secondo il vocabolario medico antico – un non del tutto identificato sommovimento nel corpo rivela infine la verità su se stesso, rendendo possibile la diagnosi. Un’estensione evidentemente diseguale è tuttavia riservata ai due versanti della questione e la discussione dell’utopia platonica e dei suoi «destini», ben oltre l’antichità, occupa da sola la maggior parte del volume. La domanda a partire dalla quale si snoda l’intera argomentazione di Canfora è se le Ecclesiazuse («Le donne all’assemblea») di Aristofane – con il celebre ‘mondo alla rovescia’ che vi è rappresentato, in cui le donne riescono a partecipare con l’inganno all’ekklesia ateniese, rivendicano libertà e diritti (anche sessuali) pari a quelli degli uomini e impongono, una volta preso il potere, una radicale forma di comunismo dei beni (e degli uomini) – possano essere considerate una puntuale risposta alle proposte platoniche in materia di ordinamento politico e sociale più «scandalose» per la «maschiocentrica» polis ateniese. È ben evidente, in effetti, che numerose e notevoli coincidenze siano riscontrabili tra la commedia aristofanea e i libri IV-V della Repubblica platonica, in cui Socrate espone la tesi della comunanza delle donne, dei figli e dei beni materiali. Tuttavia, questo l’argomento di Canfora, due ordini di motivi hanno impedito un consenso unanime rispetto alla possibilità di comunicazione tra i due testi: da una parte un «atteggiamento, psicologicamente forse comprensibile ma purtroppo unilaterale» (p. 19), volto a proteggere il prestigio di Platone dagli attacchi feroci e ridicolizzanti della Commedia antica (atteggiamento, questo, che ha caratterizzato persino l’opinione di studiosi insigni, tra cui E. Zeller e il «reazionario» U. von Wilamowitz); dall’altra, tutta una serie di assunti rispetto alla datazione dei testi in questione, «dovuti in gran parte alla fantasia dei moderni» (p. 20). In effetti, gli ostacoli principali nel riconoscimento delle tesi platoniche nella derisoria commedia di Aristofane sono stati proprio la datazione della Repubblica – come opera ‘matura’ di Platone – al 375 a.C. e quella delle Ecclesiazuse in un periodo compreso tra il 393 e il 389 a.C. (sulla base della «affrettata lettura» di una hypothesis alla commedia aristofanea Pluto [388 a.C.], in cui essa è invece indicata – secondo l’attento riesame dei manoscritti svolto da Canfora – solo come ultima mise en scène dell’autore). L’apparente anteriorità del testo comico sul dialogo platonico ha reso dunque particolarmente difficoltoso sostenere la dipendenza del primo dal secondo, spingendo diversi interpreti ad ipotizzare la ripresa, da parte di Aristofane, di «pensieri […] nell’aria» (p. 228) o addirittura delle dottrine politiche di un «riformatore sociale» quale Falea di Calcedonia (inizio IV sec. a.C.), il quale però – stando ad Aristotele che ne è l’unica fonte – avrebbe promosso solo il comunismo dei beni, e non quello delle donne. Si tratta, per Canfora, di vere e proprie acrobazie critiche. Riprendendo le storiche tesi di K.S. Morgenstern (De Platonis Republica, 1794) e di M. Pohlenz (Aus Platos Werdezeit, 1913), che avevano in tempi diversi sostenuto che i bersagli dell’Aristofane delle Ecclesiazuse e del Pluto fossero proprio l’uomo Platone e i suoi programmi di palingenesi politica, lo studioso barese torna sull’importante controversia filologica con l’intenzione di fornirvi una soluzione definitiva. Non è solo questione di datazione delle opere dell’antichità: dimostrare che Platone sia effettivamente uno degli idoli polemici di Aristofane implica una strategia argomentativa che coinvolge, oltre che la storia delle idee, anche quella delle loro modalità di circolazione in concreto, dipingendo in questo modo un realistico affresco dell’«intenso e vivace dibattito intellettuale in atto nel primo trentennio del IV secolo», in una Atene in cui «il dibattito filosofico-politico non avviene più nelle sedi della politica ma attraverso ‘scuole’ o ‘cenacoli’ contrapposti» (p. 268). Sulla base di alcuni noti dialoghi nonché della testimonianza autobiografica che Platone (o qualcuno appartenente al suo più immediato entourage) ha fornito nella celebre Settima lettera, è possibile per Canfora «assumere per acquisita la preziosa notizia […] che già prima del primo viaggio a Siracusa (389/8) era nato il nucleo fondamentale della Repubblica» (p. 39). Insieme all’accurata ricostruzione della diffusione (già «vivente Socrate») delle idee politiche di Platone – prese di mira, oltre che da Aristofane, da un’intera tradizione comica anti-socratica (Teopompo, Epicrate, Alessi, Anfide, Efippo) ricostruibile quasi esclusivamente grazie a fonti posteriori – viene fornita una mole di elementi tale da permettere di riconoscere non solo Platone come bersaglio della commedia attica, ma persino il Simposio e le progressive rielaborazioni di altri dialoghi come repliche filosoficamente via via più consapevoli alle irriverenti sferzate aristofanee. Ne risulta, in conclusione, un’immagine meno disincarnata e più viva del dibattito politico ateniese e delle sue peculiarità all’indomani dei tragici eventi che condussero, tra le molte altre cose, alla morte di Socrate. Nell’ultima parte del volume vengono infine ripercorsi gli impieghi, più o meno fedeli ed espliciti, del «paradigma in cielo» platonico nelle più celebri utopie politiche dell’Occidente, da More fino a Marx ed Engels, passando per Campanella e Swift, misurandone però più la distanza che la prossimità rispetto alla Repubblica: un’operazione che, lungi dall’assumere l’utopia platonica come «archetipo» astorico di esperienze successive, svela nell’opposizione Platone/Aristofane una forma particolare e determinata del contrasto tra realismo politico e quell’istanza utopica, forse una «costante umana» (p. 370) che mira alla costituzione dell’uomo nuovo.