«Un mappamondo che non includa Utopia non merita neppure uno sguardo»: così recita l’epigrafe scelta da Lewis Mumford per la sua Storia dell’utopia, pubblicata nel 1921. A dispetto di questa affermazione, però, pochi si aspetterebbero di trovare un posto chiamato utopia sulle carte geografiche. Stando all’etimologia greca, il termine potrebbe indicare tanto un luogo buono e dunque ideale (eu-topos) quanto un luogo inesistente (ou-topos) o addirittura un non-luogo (a-topos), come rileva Carlo Altini nella sua introduzione al volume Utopia, di cui è curatore. Il saggio introduttivo, intitolato Appunti di storia e teoria dell’utopia, offre ai lettori il filo conduttore per orientarsi nei sedici saggi che affrontano il tema dell’utopia da una pluralità di punti di vista – dalla filosofia all’antropologia, dalla politica alla storia delle religioni, dalla letteratura alla storia della scienza. L’obiettivo degli autori è duplice: da una parte, rintracciare le origini dell’idea di utopia e seguirne l’evoluzione storica nelle varie fasi della civiltà occidentale; dall’altra, indagarne potenzialità e limiti a livello teoretico ed empirico, interrogandosi su un suo possibile recupero nel mondo contemporaneo. A differenza di altre parole del lessico politico moderno, il termine «utopia» ha una storia relativamente recente. Fu coniato, infatti, nel 1516 da Thomas More, che quasi vent’anni dopo sarebbe stato messo a morte per essersi opposto all’Act of Supremacy di Enrico VIII. Le origini concettuali del termine, tuttavia, risalgono alla Grecia antica e trovano un punto nodale nella Repubblica di Platone, nella discussione sulla possibilità e sulla realizzabilità della città giusta, che attirerà le critiche di Aristotele, per il quale il modello platonico non solo non era possibile ma nemmeno desiderabile. Influenzato dal dialogo platonico, anche More nella sua Utopia muoveva una critica serrata alla società inglese contemporanea, imputando la degenerazione morale e materiale alla diffusione della proprietà privata e al crescente individualismo. Di fronte alla decadenza dilagante, all’arroganza dei nobili e al parassitismo dei ceti popolari, More immaginava un’isola in cui regnavano la pace, il rispetto delle leggi, la comunanza dei beni e la laboriosità di tutte le classi sociali. Dopo i modelli utopici rinascimentali, in cui spesso la visione tragica dell’esistenza umana si intrecciava con motivi profetici e millenaristici, i temi delineati da More saranno sviluppati un secolo più tardi da Tommaso Campanella nella Città del sole (1602), da Johann Valentin Andrae in Christianopolis (1619), da Francis Bacon nella Nuova Atlantide (1626) e da James Harrington nella Repubblica di Oceana (1656). Anche gli autori delle grandi utopie del Seicento condannarono i mali della società del tempo e proposero riforme sociali di stampo egualitario, puntando sulla rivalutazione della vita activa, sul collettivismo, sulla centralità dell’educazione e della solidarietà. L’utopia come genere letterario si consolidò poi nel corso del Settecento, prefigurando le prime forme di fantascienza. In quello stesso periodo l’idea di utopia fu anche investita da un cambiamento rilevante, che coincise con l’introduzione del tempo e della dimensione storica. Fino ad allora la maggior parte delle utopie avevano avuto come ambientazione un’isola immaginaria (Utopia per More, Trapobana per Campanella, Bensalem per Bacon) o erano state limitate dai confini, sempre spaziali, delle città ideali progettate da Leon Battista Alberti, da Leonardo da Vinci o da Francesco Patrizi. Nel 1770, invece, lo scrittore Louis-Sébastien Mercier pubblicò il romanzo L’An 2440, un’ucronia ambientata, come recita il titolo, nell’anno 2440 in una Parigi in cui era bandita l’immoralità e da cui erano spariti i nobili. L’Ottocento, poi, è soprattutto il secolo dei tentativi di riforma radicale promossi da Saint-Simon, Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e Robert Owen, antesignani del socialismo. I loro progetti, bollati come utopistici per la loro difficile realizzabilità e contrapposti al socialismo cosiddetto scientifico di Karl Marx e Friedrich Engels, erano rivolti molto concretamente a sanare le contraddizioni e le disuguaglianze della moderna società capitalistica. Dalla seconda metà del secolo, però, la fiducia nel progresso e la visione ottimistica della storia, retaggi del pensiero illuministico, iniziarono a incrinarsi. In pieno positivismo, al mito della continua perfettibilità umana si affiancò la riflessione di filosofi, psichiatri, antropologi, sociologi e persino romanzieri sui concetti di decadenza, degenerazione e declino. Ma il colpo più duro all’idea di progresso fu inferto dai tragici eventi del Novecento: le due guerre mondiali, l’esperienza dei totalitarismi, i timori legati all’inarrestabile sviluppo industriale e tecnologico aprirono la strada alle distopie. La speranza di un mondo migliore si trasformò in un incubo, come negli scenari pessimistici descritti da Evgenij Zamjatin in Noi (1920), da Aldous Huxley nel Mondo nuovo (1932), da George Orwell in 1984 (1948) o, più di recente, da Philip K. Dick nei suoi romanzi, in cui ogni aspetto della vita umana si rivela eterodiretto e sottoposto a un controllo opprimente. Nonostante ciò, il concetto di utopia nel corso del Novecento non ha perso del tutto le sue connotazioni positive: in un’ottica marxista, autori quali Ernst Bloch, Walter Benjamin e Herbert Marcuse hanno richiamato l’attenzione sull’utopia come tensione verso il futuro e come apertura di nuove possibilità rispetto al mondo dato, per la cui attuazione è necessario coniugare la speranza e l’impegno. Si può dunque affermare che, lungo tutto il corso della sua storia, il concetto di utopia ha mantenuto un carattere ambivalente: a volte è prevalsa la connotazione libertaria, incentrata sulla critica costruttiva e sull’emancipazione rispetto al modello di società esistente; altre volte, invece, l’immaginazione utopica si è proposta come vera e propria ingegneria sociale, avvicinandosi pericolosamente a derive totalitarie e trasformandosi in distopia. Vale la pena allora continuare a pensare per utopie, ovvero a investire in una immaginazione progettuale? È questa la domanda, e insieme la sfida, che il volume sembra lanciare al lettore.