L’immagine lucreziana del "naufragio con spettatore", analizzata esemplarmente da Hans Blumenberg in tutta la sua evoluzione storico-culturale e ripresa da Paolo Rossi nella sua storia dell’idea di progresso per contrapporla alla visione baconiana del viaggio per mare, viene qui studiata da un punto di vista particolare: quello dei pittori romantici di marine, ovvero di scene di tempeste, affondamenti e disastri ambientati in mare. Le linee interpretative qui seguite sono diverse, ma alla base di tutte c’è il principio romantico secondo cui le opere d’arte, anche se ispirate a eventi reali, non mirano a «ricreare un fatto accaduto in un determinato tempo storico, quanto ad alludere a un tempo del sentimento», a «far sentire la natura attraverso immagini». Il mare infatti è innanzitutto espressione del sublime, quel principio estetico tipicamente romantico che racchiude in sé l’idea del terrore, dello sgomento, dell’orrore, della transitorietà umana di fronte alla potenza e alla grandiosità della natura. L’intensificarsi del sentimento religioso e dell’interesse per il satanico nel corso dell’Ottocento portano inoltre a interpretare il mare con i suoi abissi, la sua oscurità e la sua forza incommensurabile come «l’ambito del demoniaco o il luogo in cui si compie il castigo divino», il luogo in cui il male agisce imprevedibilmente e l’uomo lotta disperatamente per sopravvivere alle avversità dell’esistenza. La sete di conoscenza e il bisogno di viaggiare, espandere i confini del proprio sapere e trasgredire i limiti della propria realtà quotidiana fanno poi del viaggio in mare la metafora stessa della crescita interiore e della vita, costellate di pericoli e tempeste, crisi e debolezze, il cui esito possibile può essere proprio un naufragio: punizione divina per chi si oppone alla propria sorte o inevitabile soccombere davanti alla morte. L’impatto sull’opinione pubblica dell’affondamento del Titanic nel 1912 dimostra come il Novecento abbia ereditato dal Romanticismo il timore reverenziale per la forza incontrastabile della natura e la consapevolezza della fragilità umana, da un lato, e della limitatezza del progresso tecnologico e scientifico, dall’altro, ma la nostra reazione di fronte alle frequenti tragedie che accadono in mare, dai disastri ecologici ai naufragi di clandestini, dimostra come oggi il carattere sublime ed epico del naufragio sia stato sostituito da una nuova coscienza globale che ritiene responsabile di queste catastrofi non tanto la natura quanto l’uomo: sfruttatore dell’immigrazione clandestina, ideatore di sofisticati impianti passibili di guasti tecnici, colpevole della disparità tra gli uomini e della sorte di chi affronta il mare non per spirito di avventura e desiderio di conoscenza, ma per disperazione.