Di fronte alla profonda inadeguatezza con cui "guerra", "nemico", "terrorismo" ed altre categorie della tradizione storico-politica cercano oggi di comprendere il senso della violenza, in generale imputabile a quello che il linguaggio bellico chiama "danni collaterali" (che si estende, oggi, a pressoché tutte le vittime civili che, nel computo generale dei morti, superano ormai il 90%), Cavarero propone un'originale prospettiva che aspira a condensare il senso dell'attuale carneficina assumendo il punto di vista dei vulnerabili (statuto permanente dell'essere umano) e degli inermi (condizione dell'infanzia e della vecchiaia), ovvero cercando di incorporare lo sguardo di chi subisce la violenza, non di chi la esercita (il guerriero o il combattente). Senza mai perdere di vista il fatto che «la violenza dell'orrore colpisce sempre qualcuno, abbattendosi sugli esseri umani a uno a uno, e che le vittime delle stragi sono sempre creature singolari, con un volto, un nome e una storia» (p. 29), il saggio mostra come sia possibile costruire una vera e propria "ontologia della vulnerabilità": centrale è l'essere umano consegnato al vulnus, alla ferita che l'altro può sempre infliggergli, ovvero alla potenzialità di una ferita sempre incombente e legata alla contingenza. Il termine "orrorismo" è idealmente deciso proprio dalle vittime inermi, non dai loro massacratori. Sebbene spesso affiancato al "terrore", il termine "orrore" mostra di avere caratteristiche opposte; se il primo, infatti, allude tanto al corpo che trema quanto alla fuga incontrollata, il secondo «denota principalmente uno stato di paralisi che trova rafforzamento nell'impietrirsi di chi si agghiaccia» (p. 14). L'orrorismo è quindi caratterizzato da una forma particolare di violenza il cui scenario va oltre la sfera della crudeltà ed arriva ad eccedere la morte stessa: questa violenza mira infatti a decostruire la soggettività delle vittime, togliendo loro la propria singolare identità, massacrandole "a caso" o "per errore", azione che ha come risultato "la sensazione paralizzante di esser totalmente inermi e in mano alla sorte" (Primo Levi). Rivisitando le icone dell'agghiacciante Medusa e della matricida Medea, servendosi di numerose analisi filosofiche (quali, tra le altre, quelle di Hobbes, Schmitt, Arendt, Bataille e Foucault), confrontandosi con le aberrazioni di Auschwitz e con alcuni casi esemplari del repertorio dell'orrore offerte dalle cronache dei nostri giorni, il testo invita ad un radicale cambiamento di prospettiva: quello che, scoprendoci sempre vulnerabili, pone l'accento sulla nostra esposizione alla dipendenza dell'altro secondo un duplice e reciproco senso: alla sua cura come al suo oltraggio.