Ricostruendo il processo inquisitoriale contro il vescovo di Nicosia Filippo Mocenigo, che partecipò attivamente alle fasi decisive del Concilio di Trento, l'autrice mette in rilievo il percorso seguito nel secondo Cinquecento dalla normativa relativa al giudizio sui vescovi e dalle sue significative variazioni, condizionate dall'evoluzione nel rapporto tra pontefice e Inquisizione: laddove essa si articolò in modo conflittuale, la pretesa dell'Inquisizione di porsi come tribunale supremo contro i vescovi sospetti di eresia fu in grado di insidiare la stessa potestà papale. Da un lato si poneva l'«ideologia dell'Inquisizione» – che si candidava a rappresentare l'unico luogo di definizione dell'ortodossia anche al prezzo di indebolire l'autorità pontificia – dall'altro la volontà di consolidare la concezione gerarchica della Chiesa e di rafforzare i poteri dell'episcopato, operando un'azione di contenimento delle competenze del Sant'Uffizio. Questa posizione venne sostenuta da Pio IV che tuttavia, impegnato nel teatro della politica europea, non poteva rinunciare del tutto allo strumento inquisitoriale. Mocenigo era tra coloro che vedevano nel pontefice la suprema istanza dell'interpretazione della verità all'interno dell'ordine sacerdotale. L'indagine dell'autrice evidenzia la continuità tra i papati di Paolo IV, Pio V e Gregorio XIII, che sancirono lo svuotamento delle prerogative assegnate ai vescovi dal Concilio. In particolare si affermò la realtà di un centro di potere che era in grado di ribadire la propria ideologia senza incontrare ostacoli da parte del papato: un'ideologia secondo la quale l'eresia era una macchia indelebile e spettava soltanto all'Inquisizione occuparsene. La norma che proibiva la conversazione con gli eretici, trasmessa dai trattati inquisitoriali, divenne un assioma della politica romana in Europa. Ciò metteva i rappresentanti della diplomazia vaticana in balìa del Sant'Uffizio, con la conseguenza di condizionarne le scelte e i margini di autonomia. A determinare tale carattere strutturale della Chiesa tridentina furono appunto i papi inquisitori, che provenivano dalle file dei regolari e portavano con sé schemi mentali e valori appartenenti alla cultura teologica degli ordini mendicanti: l'organizzazione gerarchica, il voto di obbedienza, il rigoroso controllo del percorso di studi. Dall'esame dei documenti legati al processo contro Mocenigo viene alla luce un uso politico delle accuse di eresia, non il precoce funzionamento di un moderno apparato amministrativo, ma l'esistenza di un potere in grado di bloccare arbitrariamente le carriere ecclesiastiche.