Una delle peculiarità del diritto romano consiste nell’aver dato origine a una forma di disciplinamento sociale progressivamente separato dalla sfera religiosa. Questa separazione non era ovvia per le altre grandi civiltà in cui la regolamentazione sociale passava attraverso la morale e, appunto, la religione. In questo modo il diritto romano, da un lato, ha potuto salvaguardarsi dalle intromissioni morali e religiose ma, dall’altro, ha spesso corso il rischio di isolarsi rispetto al mondo, dimostrandosi talvolta incapace di cogliere la complessità del reale. La svolta fondamentale si realizza tra il III e il I secolo a.C. con un progressivo accumularsi di testi scritti che sancisce la fine dall’antica segretezza pontificale e indica un diverso rapporto tra “caso” e “responso”, in cui il parere del sapiente si colloca sul piano di un disciplinamento più organico, facendo crescere una più complessa etica della giurisprudenza come “sapere civile” affiancato da altre discipline. I giuristi – una ristretta cerchia di sapienti che progressivamente costruì una conoscenza tecnica esclusiva – vennero così trasformandosi nei protagonisti di una tecnologia sociale con una forte capacità ordinativa sulla realtà, collocata da parte solo per essere meglio padroneggiata. Progressivamente si affermò – avverte Schiavone – la tendenza a isolare l’aspetto tipico e ripetibile di ogni relazione per costruire dei concetti astratti che non furono considerati soltanto delle categorie di pensiero, ma anche figure reali, enti dotati di vita e oggettività, che permettevano l’ordinamento di un rigoroso sistema giuridico. I concetti giuridici (l’obbligazione, il contratto, il possesso, il mutuo, il deposito, il dolo ecc.) sarebbero presto diventati i protagonisti di una scena dove l’esperienza concreta della vita sarebbe stata ridotta entro un numero definito di modelli. La regola giuridica si dimostrava un atto di conoscenza e non di volontà, il risultato di un’operazione conoscitiva razionalmente controllabile in ogni sua fase, sottratta all’arbitrio personale e al dominio politico. Il diritto si consegnava, in questo modo, ai principi di una nuova pratica intellettuale che avrebbe contribuito in modo determinante a formare il quadro epistemologico di tutti i saperi sociali. Il limite dell’imponente costruzione elaborata consistette nell’esibire della società romana solo un carattere unilaterale, espressione di proprietari e mercanti. Per questo motivo – e per non avere alle spalle le dinamiche di un’autentica società civile – il diritto romano non ha mai smesso di apparire come una costruzione maestosa e al tempo stesso immobile: una compiutezza in forma chiusa.