A ormai vent’anni dalla prima edizione, è finalmente disponibile in traduzione italiana la preziosa introduzione all’opera di Émile Durkheim pubblicata da Anthony Giddens nel 1978. In quanto introduzione, quest’opera condivide pregi e difetti che caratterizzano il genere, tuttavia si distingue per la scelta di Giddens di concludere il proprio lavoro con un capitolo critico in cui viene approfonditamente riesaminata la validità attuale delle tesi durkheimiane, e in particolare delle sue opere più importanti: La divisione del lavoro sociale (1893), Le regole del metodo sociologico (1895), Il suicidio (1897) e Le forme elementari della vita religiosa (1912). Secondo Giddens, Durkheim fallisce metodologicamente sia nell’intenzione di comprendere le strutture complesse del fenomeno religioso a partire dalle sue manifestazioni più semplici – pricipio in sé non fallace, ma che non trova riscontro nella presupposizione che forme religiose semplici siano proprie di strutture sociali semplici, e che Durkheim non applica correttamente sia scegliendo il totemismo di alcune tribù dell’Australia centrale come forma semplice di religiosità, – forma che non è risultata paradigmatica nemmeno del totemismo australiano – sia ipostatizzando la polarizzazione tra sacro e profano che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto definire la religione stessa. Oltre a ciò, le analisi di Durkheim mancano di un dato fondamentale: il ruolo del conflitto e degli interessi nella dinamica sociale. Giddens riconosce che il momento conflittuale non è completamente assente, come hanno preteso numerosi critici, ma è sempre inteso come conflitto tra l’individuo e la società, mai tra classi o gruppi di potere. Ne consegue l’impossibilità di comprendere tanto il ruolo di potere ricoperto dalla religione che l’impellenza e la violenza delle dinamiche di trasformazione sociale. Ne è un esempio la scelta metaforica di Durkheim, il quale riconduce spesso la struttura sociale a quella di un organismo che si trasforma molto lentamente e per piccole “regolazioni” verso una forma sempre migliore. Allo stesso tempo, risulta ambiguo anche il concetto di anomia, il quale assume il duplice significato di assenza di limiti intrinseci e di impossibilità di realizzazione delle aspirazioni poiché le potenzialità create dalla società non sono attuabili entro i suoi limiti. La conclusione di Giddens è dunque che “lo sforzo durkheimiano di dimostrare l’influenza della causalità sociale sulla condotta umana e di combattere il soggettivismo è certamente giustificato. Questo tentativo va accolto, ma non può essere attuato in modo soddisfacente all’interno dello schema metodologico della sociologia durkheimiana.” (p. 99)