L’opera di Gianni Carchia – docente di Estetica nella Terza Università di Roma – rilegge la storia dell’estetica classica come storia dell’ambivalenza di Afrodite: la bellezza ha una componente distruttiva, rispetto alla quale si sono distinte due vie: quella “tragica” del dolore e della “non conciliazione” e quella “apollinea” della sublimazione del dionisiaco nell’armonia della forma.
Nel pensiero platonico confluiscono entrambi gli impulsi: l’uno nella visione della bellezza come forma ideale, l’altro nello slancio erotico dell’anima. L’estetica platonica, inoltre, distingue la “buona” dalla “cattiva” imitazione e salva la mimetike che si ponga come assimilazione al divino. Tuttavia, in Platone il fine dell’arte “buona” rimane sostanzialmente politico-morale, là dove in Aristotele assume una connotazione contemplativo-intellettuale. L’idea di catarsi, che recupera “purificate” le passioni abolite da Platone, è adesso il risultato di un processo conoscitivo, un piacere che accompagna la mimesi come riconoscimento dell’accadere necessario dell’azione.
Il pensiero ellenistico è responsabile della retoricizzazione della poetica e dell’abbandono della speculazione metafisica in ambito estetico. Con la “Commedia nuova”, il mythos aristotelico è sostituito dal carattere (non più categoria morale ma psicologico-espressiva) e l’ethos dal pathos (non più disposizione psicologica ma elemento caratteriale).
L’ultimo esempio di sopravvivenza del significato originario dell’estetica classica va rintracciato, oltre che nel trattato “Del sublime”, nella riflessione estetica di Plotino. Con lui ritorna il mito dell’ambivalenza della bellezza: da un lato la dimensione dell’inquietante, che si impone contro ogni visione pacificata del bello e contrappone all’estetica quantitativa della proporzione l’estetica qualitativa della luce; dall’altro la dimensione del rapimento celeste, come presenza costante dell’intelligibile in tutte le manifestazioni del creato. Tuttavia, la visione della forma è ora un processo di interiorizzazione al cui vertice non è il Bene platonico, la misura, ma l’incommensurabile, il senza forma, non più caos, bensì il Divino.
L’Afrodite del mito classico ricompare, al tramonto dell’estetica antica, in tutta la sua ambiguità originaria: figura di bellezza che non ha misura.