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Al di là di questo, nessuna credenza e nessun mistero vincola il fedele. L’invisibile di cui parla il Corano è la dimensione dell’imperscrutabile volontà di Dio, non dogmi che la ragione è incapace di spiegare e che i musulmani considerano volentieri come irrazionali (per esempio, riguardo al cristianesimo, la Trinità, l’Incarnazione, la transustanziazione, i sacramenti, ecc.). Sono piuttosto gli obblighi cultuali (‘ibadat in arabo) che si impongono al fedele: oltre alla professione dell’Unicità, la preghiera e l’elemosina legale, già citati, il digiuno nel mese di Ramadan dall’alba al tramonto e il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, se se ne hanno i mezzi e se si gode di buona salute. Sono questi obblighi pratici, i famosi "cinque pilastri", che qualificano l’appartenenza del fedele all’islam molto più della dogmatica, e che gli garantiscono la salvezza. Si narra che un giorno un uomo si presentò al Profeta Muhammad e gli chiese: «Se pratico i cinque pilastri e non aggiungo altro, andrò in paradiso?». Il Profeta rispose: «sì».
Ciò significa che, rispetto ancora al cristianesimo, l’islam è essenzialmente ortoprassi, ovvero "retto comportamento", piuttosto che ortodossia, ovvero "retta opinione". Importa più ciò che si fa che ciò che si crede (al di là ovviamente della confessione monoteistica). Ancora il Corano dice che Dio perdona ogni peccato e ogni colpa, tranne il politeismo, l’associare alla sua Unicità altri dèi. Il fatto già evidenziato che nell’islam sunnita non esistano né Chiesa né clero, cioè non esistano né un organismo centrale che impartisce un magistero cui tutti i fedeli sono tenuti a conformarsi, né un ceto di consacrati (i sacerdoti) che fungono da mediatori tra Dio e il credente, conferma questo punto di vista.
(da M. Campanini, I sunniti. La tradizione religiosa maggioritaria dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 11-12)*
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