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Sulle smart cities c’è oramai di tutto e di più. Oltre alle molte richieste di finanziamento all’UE, ci sono master post-laurea, corsi di laurea universitari, siti dedicati, ponderose ricerche universitarie o di vari organismi di ricerca, molti convegni nazionali e internazionali, gruppi di professionisti che si offrono per consulenze e una notevole quantità di pubblicazioni di grande interesse e persino delle trasmissioni radiofoniche che in maniera molto argomentata definiscono che cosa è una smart city o ne individuano i principi. E allora perché ancora un capitolo dedicato alle smart cities? Per cercare di rendere il più possibile esplicito ciò che è implicito e per evitare alcuni equivoci pericolosi. Innanzitutto la questione smart non è solo tecnologica. Certo si dovrebbe cominciare a riflettere sulla distinzione tra tecnica e tecnologia, così come si può evocare l’affermazione di uno dei più «inquietanti» filosofi del Novecento, Heidegger, il quale scriveva che «la tecnica non è questione tecnica», trovandoci a pensare «sarà una questione, appunto, dell’essere stesso?». Forse per questo ho potuto parlare di Essere smart? Oppure «vuoi vedere che è questione politica?», e così di seguito. Sembrerà inutile ribadirlo, ma troppo spesso si trovano amministratori pubblici e/o politici che si sentono smart (o vogliono «vendersi» come smart) perché propongono di realizzare sistemi per cui i parcheggi si possono trovare con il telefonino, o fanno sì che il rumore del traffico si trasformi in musica tridimensionale, o che la raccolta delle immondizie sia fatta dopo che dei sensori segnalano che i contenitori sono pieni, permettendo una raccolta intelligente degli stessi con risparmio nei trasporti, o che i lampioni della città siano dotati di pannelli solari per l’alimentazione. Tutto utile, tutto giusto! Ma la questione smart è di più, e se è di più è anche «altro». È sostanzialmente problema della governance e quindi è questione politica. È un modo diverso non di fare politica, ma di essere politica. La smart city è la città della condivisione e della partecipazione rispetto a ciò che è ritenuto bene comune. Uno dei caratteri delle smart cities è che ognuna è «costitutivamente» diversa da ogni altra. Questo significa che l’uso delle tecnologie digitali non impone l’omologazione degli esiti: questo da una parte conferma che essere smart non è questione tecnica e che dall’altra la tecnica digitale è diversa da quella industriale; nella prima viene privilegiato lo standard, nella seconda la fluidità e la differenza. Essere smart è alimentarsi della differenza. In particolare le procedure operative che «accompagnano» le città per farle diventare smart «partono» dalle risorse, dai caratteri, dai luoghi e dalle vocazioni esistenti. Questo significa, in sintesi, che nascono «dal basso», intendendo per ciò che è basso non ciò che è inferiore ma ciò che è «basilare», quindi anche e soprattutto i cittadini. Non si tratta però di una mera ideologia partecipativa. Uno degli scopi delle smart cities è senza dubbio il risparmio energetico e l’efficienza delle procedure che vedono coinvolti i cittadini, ma lo scopo ultimo è l’inclusione attraverso la coesione sociale, cioè la tutela sociale, l’occupazione, l’istruzione e la formazione professionale, i diritti dei lavoratori, la salute, la casa, le pari opportunità, la non discriminazione e l’immigrazione. (…) In sintesi lo smart rimette in gioco, oltre alla questione del bene comune/interesse pubblico, questioni cruciali come l’appartenenza, l’identità sociale, la rappresentanza, le modalità dell’essere cittadini e il concetto stesso di cittadinanza, e quindi la stessa democrazia.
(da R. Masiero, Essere smart, in A. Bonomi e R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 108-109, 112)
Le conferenze del ciclo Progresso saranno trasmesse in diretta web sul sito http://www.fondazionesancarlo.it//
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Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.