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La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è solo un fatto quantitativo, con svariate conseguenze sociali, economiche e culturali. Differenti livelli quantitativi nei vari indicatori non producono solo un cambiamento quantitativo. Insieme producono e creano nuove problematiche, nuovi processi di interrelazione: in una parola, un cambiamento qualitativo – niente di meno, come si è detto, di un nuovo tipo di società. Alquanto diverso dal modello di Stato-nazione come noi lo conosciamo, e dai suoi principi fondatori, che non a caso sono oggi in crisi. Si pensi agli elementi stessi dello Stato: un popolo, un territorio, un ordinamento – tutti e tre, per motivi diversi, attualmente in crisi, sotto pressione, in perdita di capacità definitoria e dunque di efficacia. Per non parlare di quell’altro elemento, implicito ma ben reale nella nostra comprensione della società (lo sanno bene coloro che appartengono a una minoranza religiosa), che si aggiunge ai tre precedenti: una religione.
La pluralizzazione avviene e aumenta già per dinamiche interne alle nostre società. Ma, in più, la presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano “nudi”: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai l’hanno perduto, di richiamarsi a esse come a indispensabili nuclei di identità: spesso per identificazione, talvolta anche solo per opposizione. Essi spesso giustificano e confermano una specificità e anche una sensibilità religiosa che una modernità superficiale nelle apparenze, e nello stesso tempo profonda e radicale nella sua capacità di scalfire gli stili di vita tradizionali e i convincimenti su cui si basano, apparentemente fa di tutto per cancellare. In una parola, la religione, e ancora di più la religione vissuta collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati.
Questo processo provoca un cambiamento radicale – di paradigma, in senso forte – nel nostro criterio interpretativo e, ancora prima, nella nostra percezione, nel nostro vissuto relativo al rapporto tra religione-popolo-territorio. Per dirla nel modo più semplice possibile, noi siamo abituati a immaginare, del tutto intuitivamente, che, grosso modo, a un territorio corrisponda un popolo con una religione dominante, con l’eventuale corollario di qualche presenza minoritaria. Oggi la compresenza di svariate entità religiose, resa ancora più visibile e in un certo senso drammatizzata dalla presenza di cospicue comunità di immigrati che si richiamano a religioni più o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che mi sembra pertinente chiamare, mutuando l’espressione dal dibattito filosofico recente, una diversa “geo-religione”.
Non c’è più, insomma (semmai c’è stata in maniera così totale: in realtà anche questa unitarietà è un mito di origine romantica), un popolo con una propria fede che abita un determinato territorio: ma assistiamo al progressivo prodursi di una realtà molto più articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si mischiano, ma comunque co-abitano) popoli, culture, religioni e altro ancora. La pluralità, insomma, da patologia che era si è fatta fisiologia: è diventata, o sta diventando, normale. Un effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione.
La pluralizzazione avviene dunque su tutti i piani. E non è solo un fatto (ad esempio, la maggiore offerta culturale o sociale disponibile). È un processo. Che cambia la società e dunque ci cambia. Cambia noi, e cambia gli altri attori in gioco, in primo luogo gli immigrati stessi: trasformando le nostre e le loro identità individuali e collettive.
(da S. Allievi, Pluralismo, Bologna, EMI, 2006, pp. 21-23)*
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