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Preclusa ogni possibilità di tenere nettamente distinti l’insieme dei cittadini e la compagine pubblica – non una “macchina” statuale, un’entità astratta o una “persona giuridica” altra dai primi -, assolta direttamente da questi la maggior parte delle funzioni pubbliche, senza che si desse mai vita (se non nell’esperienza dell’impero tardoantico) a un apparato amministrativo consistente e articolato, la cittadinanza greca e romana si presenta come «militanza» o già essa stessa “magistratura”, o almeno condizione tale da potervi accedere, è «mestiere» (nel senso di «professione a tempo pieno»), «fatto totale» e assorbente, partecipazione e condivisione di una politica di tipo «esistenziale». Pur con diverse connotazioni fra la Grecia e Roma, la cittadinanza non si delinea come il versante politico di una struttura logica e giuridica che, sul piano civile, possa dar vita a una nozione forte di soggetto, col suo ineludibile corredo di diritti. Come affermava Hartog, sviluppando il pensiero del Marx de La sacra famiglia, «l’uomo dei diritti non può essere l’uomo della polis antica»!
L’ambito politico, e quindi anche lo spazio della cittadinanza, si delinea quale l’unica vera dimensione pubblica dell’uomo greco e romano: fuori dall’oikos o dalla domus è solo polis o res publica. In termini weberiani, l’uomo antico è homo politicus, diversamente dall’homo oeconomicus, ad esempio, delle città dell’Italia medievale (sebbene nell’aristotelismo trecentesco circolerà ancora l’idea, enunciata da Remigio de’ Girolami, che l’individuo si non est civis non est homo). Le prerogative del polítes sulla scena pubblica, e la sua «libertà positiva» possono anche essere infinitamente più ampie – come nel caso della democrazia ateniese del V e IV secolo a.C. – di quelle del cittadino moderno, ma egli non godrà di niente di veramente assimilabile ai nostri “diritti soggettivi” o “innati” o “umani”, baluardi contro le ingerenze di pervasive macchine statuali.
In proposito, emerge già una prima peculiarità dell’esperienza greca, perché se quanto affermato per l’homo politicus vale in genere per le concezioni antiche, non vi è dubbio che esso assuma tratti ancor più drastici nel mondo delle póleis e di Atene in particolare, ove è maggiormente visibile la difficoltà di configurare un koinón che incarni la dimensione del “sociale” anziché del “politico”, o comunque consenta di isolare la prima dalla seconda. È davvero illuminante, al riguardo, la faticosa cautela – ben illustrata da Hannah Arendt – con cui gli autori latini, dinanzi alla definizione aristotelica dell’uomo come politikòn zôon, cercavano di tradurre quell’idea di socialità disancorandola dalla sfera esclusiva della pólis (così da rendere l’espressione greca in termini di animal sociale, come in Seneca).
(da E. Stolfi, Polítes e civis: cittadino, individuo e persona nell’esperienza antica, in C. Tristano e S. Allegria, a cura di, Civis/civitas. Cittadinanza politico-istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna, Montepulciano, Thesan & Turan, 2008, pp. 22-27)