Quando fu negoziato il trattato per l’istituzione della Comunità europea di Difesa, Alcide De Gasperi propose che l’Assemblea parlamentare della CED avesse poteri costituenti. Nel clima «federalista» dell’Europa di allora la proposta fu accettata, ma cadde, con l’intero trattato, allorché il Parlamento francese, nel 1954, ne rifiutò la ratifica. Quando fu eletto al Parlamento europeo nel 1979, Altiero Spinelli creò un piccolo gruppo «costituente» e trasse da quelle riunioni un progetto che adattava all’Europa i modelli federali degli Stati Uniti e della Svizzera. Ma i governi, negli anni seguenti, preferirono attenersi alla vecchia ricetta delle unioni funzionali e cominciarono, con l’Atto Unico del febbraio 1986, il percorso che porterà alla creazione dell’Unione economica e monetaria a Maastricht nel febbraio del 1992. I governi preferivano la strada delle integrazioni settoriali e la commissione concentrò ogni suo sforzo sui due obiettivi che apparivano, in questa prospettiva, più redditizi: il mercato e la moneta. Per mezzo secolo quindi la Costituzione è stata una sorta di miraggio ricorrente che i viaggiatori entusiasti credevano a portata di mano e a cui i più esperti prestavano scarsa attenzione. I «vecchi» sapevano che lo Statuto di un’associazione fra Stati ha un senso soltanto se i soci sono pronti a cedere formalmente e solennemente una parte considerevole della loro sovranità. E sapevano che nulla sarebbe stato più pericoloso, per il futuro dell’Unione, di un clamoroso fallimento. Questa seconda osservazione è tuttora valida: l’Europa non può permettersi una disavventura simile. Se gli Stati, come è parso evidente negli scorsi anni, non sono in condizione di mettersi d’accordo su un testo significativo, è meglio tralasciare, per il momento, l’idea della Costituzione e parlare d’altro. Ma al vertice di Laeken, negli scorsi mesi, questo atteggiamento è cambiato. Esistono dunque le condizioni per una diversa strategia? Vi sono motivi per ritenere che la via della Costituzione sia oggi più praticabile di quanto non fosse tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta?
Suppongo che i «vecchi» continuino ad avere molti dubbi. Ma due fattori li hanno costretti a modificare la loro posizione. Il primo di questi fattori è l’allargamento, il secondo è l’euro. Sapevamo sin dall’inizio degli anni Novanta che l’Europa, dopo il crollo dell’impero sovietico, non avrebbe potuto aprire le sue porte a nuovi candidati e raggiungere contemporaneamente gli obiettivi del trattato di Maastricht. L’unico allargamento possibile fu l’annessione della Repubblica Democratica Tedesca, tra la fine del 1989 e la fine del 1990. Il prezzo fu alto, venne pagato dall’intera Europa e dimostrò che l’adesione di altri Paesi candidati era per il momento impossibile. Il decennio venne impiegato a preparare l’avvento dell’euro mentre i vecchi Paesi socialisti vennero pregati di accomodarsi in sala d’aspetto e di mettere ordine nelle loro economie. Oggi, a più di un decennio dalla fine della guerra fredda, la politica del rinvio non è più possibile. Ma è altrettanto impossibile immaginare che il sodalizio si estenda a una decina di soci senza che nuove regole permettano di renderlo governabile. È l’allargamento, quindi, il primo fattore che costringe l’Europa ad affrontare finalmente il problema della sua Costituzione. Il secondo è la moneta unica. L’euro è un bene pubblico europeo. Il denaro nelle nostre tasche appartiene a tutti i cittadini dei Paesi che hanno aderito all’Unione monetaria e il suo valore dipende in ultima analisi dal modo in cui ciascuno di essi organizzerà la propria vita economica. La Banca centrale lo difende dalla inflazione, ma non ha, e non può avere per il momento, altri compiti. Il valore dell’euro, quindi, è la somma algebrica degli indirizzi economici di Paesi che non obbediscono, se non indirettamente, a una politica economica comune. La stessa considerazione vale per altri beni pubblici europei: il mercato unico, l’ortodossia dei bilanci, l’agricoltura, l’ambiente, la sanità, la sicurezza. Nessun membro dell’Unione è in condizione di disciplinare a suo piacimento l’uso di questi beni, ma ciascuno di essi è esposto al cattivo uso che altri potrebbero farne. Sommandosi ad altri beni pubblici europei, costituiti nel corso degli ultimi decenni, l’euro è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. I beni sono troppi, ormai, perché i Paesi dell’Unione possano continuare a ignorare il problema della loro gestione comune. I «federalisti» non sono più voci nel deserto. Anziché essere, come in passato, un’aspirazione ideale e un atto di fede, la Costituzione è diventata un’esigenza concreta, la condizione da cui dipende la sopravvivenza di tutto ciò che è stato fatto in Europa dopo la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Ma anche gli antifederalisti, nel frattempo, si sono accorti che questa fase è decisiva. L’aumento della loro forza, negli ultimi anni, è stato direttamente proporzionale al successo della costruzione europea. Quanto più l’Europa si avvicinava agli obiettivi di Maastricht, tanto più cresceva in una parte delle società europee un sentimento di inquietudine per gli effetti che il mercato unico e l’euro avrebbero avuto sulla vita quotidiana di molti cittadini. A sinistra questa nuova Europa, razionale e moderna, viene percepita come l’ultima reincarnazione del capitalismo. A destra, come una minaccia alle tradizioni, alle identità, alle radici. A sinistra il nemico è rappresentato dal denaro apolide e «irresponsabile» delle multinazionali. A destra è incarnato dall’immigrazione extracomunitaria. È questo il momento in cui alcuni partiti e indirizzi politici, vecchi o nuovi, acquistano una forte connotazione antieuropea: il partito popolare danese, il blocco fiammingo, il partito nazionale britannico, il partito nazional-liberale austriaco, i Republikaner tedeschi, la Lega Nord in Italia, il Fronte nazionale e una parte del gollismo in Francia, i partiti comunisti, molti conservatori e laburisti in Gran Bretagna. Ciascuno di questi partiti sa che le sue sorti dipendono dall’esito della battaglia che verrà combattuta nel corso dei prossimi due anni.
Mentre la Convenzione dibatterà le sue proposte l’Europa sarà quindi teatro di un grande dibattito tra federalisti e antifederalisti. I primi, anche quando preferiranno definirsi in altro modo, proporranno istituzioni forti, regolate dal criterio della maggioranza, e cercheranno di attribuire a esse alcuni dei poteri che oggi restano ambiguamente nelle mani degli Stati. I secondi proporranno una Lega delle nazioni in cui ogni Stato conservi, per quanto possibile, il diritto di veto. L’Europa attraverserà così, pacificamente, una crisi simile a quelle che altre costruzioni federali attraversarono nei primi decenni della loro esistenza. In Europa lo scontro sarà duro e, speriamo, decisivo. Aggiungo un’ultima considerazione. Dal buon governo dei beni pubblici che l’Europa ha creato nel corso degli ultimi decenni dipende la creazione degli altri beni, meno tangibili, di cui l’Unione ha bisogno. Abbiamo un mercato unico, una moneta unica, una frontiera unica, trecento milioni di cittadini-consumatori. Ma non abbiamo una dignità e un’influenza corrispondenti al nostro patrimonio politico, economico e culturale. Dopo l’11 settembre, in mancanza di istituzioni europee, i singoli leader nazionali si sono rincorsi a Washington per recitare almeno qualche battuta nel dramma che gli americani si apprestavano a mettere in scena. Ma nessuno di essi, neppure Tony Blair, ha avuto la benché minima influenza sugli indirizzi della politica americana. Coloro che desiderano una «Lega delle nazioni», composta da Stati sovrani, non sembrano comprendere che l’Europa si condannerebbe in tal modo a un ruolo «ateniese». Invitano gli europei a scegliere fra le loro sovranità nazionali e il nuovo «superstato» di Bruxelles, ma non si accorgono che gli Stati nazionali hanno già perduto, soprattutto nei loro rapporti con l’alleato maggiore, la loro antica sovranità.