Il mondo fabbricato

Forme del lavoro ‘totale’ tra fordismo e postfordismo

  • Marco Revelli

    Professore di Scienza politica - Università del Piemonte Orientale

  • venerdì 06 Dicembre 2002 - 17.30
Centro Culturale

Il secolo è finito. Più di dieci anni or sono, dal punto di vista storico e politico […]. In realtà il Novecento finisce ripresentandoci – irrisolti – quasi tutti i nodi che, drammaticamente, con la potenza e la violenza, con le sue mobilitazioni totali e i suoi artifici mortali, aveva tentato di tagliare. Giano bifronte, esso ci trattiene tra le sue spire col gioco delle sue ambivalenze radicali, dei paradossi che l’hanno attraversato spingendolo ad essere, in senso proprio, il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti – democrazia e dittatura, ricchezza e miseria, progresso e barbarie, potenza e impotenza – mai capaci di una soluzione stabile, d’un equilibrio definitivo. A cominciare da quella che forse ne è stata l’ambivalenza più devastante, il paradosso che ancor oggi ci paralizza: la clamorosa contraddizione tra l’onnipotenza dei mezzi tecnici che il secolo ha trovato a propria disposizione – senza dubbio superiore a quella mai raggiunta in ogni altra epoca storica – e la drammatica incapacità da esso dimostrata di raggiungere, senza pagare un prezzo sproporzionato, pressoché tutti i propri fini (sociali, etici, politici). Il dislivello disperante tra l’ossessiva volontà di costruzione del mondo, che ne ha acceso la febbre del fare, e la fragile, incompleta e alla fine dissolta, capacità di controllo sulla distruttività delle proprie macchine e dei propri gesti.
Il Novecento è stato – come negarlo? – il secolo dell’homo faber. Quello in cui, quasi con ferocia, l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva, ed il mondo a realtà fabbricata. Sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività della produzione è stata ridisegnata la sua società, sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica. Si può immaginare che, forse, nel gene dell’homo faber siano da ricercare anche le radici del male profondo che ha minato la biografia politica del secolo: i suoi deliri, la smisurata volontà di potenza che l’ha devastato, l’estensione che vi hanno avuto l’oppressione e la violenza, inestricabilmente intrecciate con la febbrile volontà di liberazione e di emancipazione. In sostanza, tutto ciò che fino ad ora eravamo soliti attribuire all’opposta patologia dell’homo ideologicus: alla sua arcaicità (al suo essere «fuori tempo»), alla sua irrazionalità, al suo rifiuto di accettare la logica delle cose; quando invece – questo è il tarlo che si vuole qui insinuare – proprio dalla logica delle cose ormai senza più limiti né contrappesi, dallo scatenamento di un mondo ridotto a «mondo delle cose», sembrerebbe provenire la distruttività della politica novecentesca ogniqualvolta ha preteso di sollevarsi dal livello della pura amministrazione. E insieme quel desolante senso di fragilità e d’impotenza degli uomini che l’hanno incarnata: la loro patetica incapacità di controllare gli esiti di ciò che di volta in volta avevano posto in movimento ed evocato.
Da questo punto di vista è senza dubbio Auschwitz il luogo estremo di caduta, dove letteralmente gli uomini, i loro corpi, la nuda vita furono ridotti a materia di lavoro, usati e distrutti come cose; e dove, occorre aggiungere, «quasi nessuno dei principî etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva» (G. Agamben). Ma è piuttosto dentro la vicenda del comunismo novecentesco – la sua irresistibile ascesa e poi la sua caduta e fine, le sue promesse e i suoi esiti – che occorre guardare se si vuole, al di fuori della dimensione abbacinante del «male assoluto», gettare lo sguardo sulla natura profonda del secolo e sulle sue antinomie selvagge. Nato dal progetto prometeico di dare forma di potere al lavoro liberato – fino a farne principio generale di organizzazione della società – esso ha finito per porre in essere il più potente, esteso e apparentemente irresistibile apparato politico di coercizione sulla dimensione sociale del lavoro. Espressione della libera aspirazione a riscattare l’uomo dalla natura di merce (di «cosa») ha finito per generare un universo interamente pietrificato nel suo profilo di società del lavoro totale: macchina composta da uomini ridotti alle loro funzioni produttive (a «uomini di marmo», appunto). Ne è testimone il destino stesso – la biografia fratta, l’Io diviso, la doppia dimensione – di coloro che ne furono i protagonisti: dei militanti che s’illusero di poter edificare la società giusta con la stessa artificialità con cui la produzione di massa andava trasformando il mondo, sicuri di aver finalmente ottenuto, dallo sviluppo della tecnica e dell’industria, i mezzi adeguati per potenza ed efficacia al più ambizioso e smisurato dei fini. E dovettero invece sperimentare la progressiva erosione di quegli obiettivi, riassorbiti, sopravanzati e infine divorati – spesso insieme agli uomini che per essi si erano battuti – dagli stessi strumenti che avrebbero dovuto servire alla loro realizzazione (il Partito, l’Organizzazione, l’Apparato). Dai mezzi fattisi, in ragione della loro potenza, fini a se stessi.
(da M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2001, pp. VII-IX)

Riferimenti Bibliografici


- G. Anders, L’uomo è antiquato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992;*
- G. Bataille, Il dispendio, Roma, Armando, 1997;*
- U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi, 2000;*
- A. Caillé, Il terzo paradigma, Torino, Bollati Boringhieri, 1998;*
- A. Gramsci, Americanismo e fordismo, Torino, Einaudi, 1978;
- E.J. Hobsbawm, Il secolo breve: 1914-1991, Milano, Rizzoli, 1999;*
- M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1980;*
- E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, Parma, Guanda, 2000;
- R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2000.*

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