Se la rappresentazione si articola all’interno della tradizione ebraica soprattutto in relazione alla parola, nel rispetto del divieto delle immagini figurate, queste non sono però assenti, a partire dai cherubini dell’arca dell’alleanza (Ex 25,18) ai cherubini del tabernacolo (Ex 26,1), al serpente di bronzo di Mosè (Num 21,8), ai cherubini del Tempio (II Cron 3,10-14; I Re 6,23-35), ai tori, ai leoni, ai cherubini del mare di rame (I Re 25-30), ai leoni del trono di Salomone ( Re 10-20), fino alle sinagoghe dipinte, alle statue presenti all’interno di sinagoghe, alle raffigurazioni sepolcrali, ai pavimenti a mosaico, alle monete e ai sigilli.
Si tratta di presenze troppo numerose perchè si possa considerarle semplici eccezioni ed esse non possono dunque essere spiegate in un quadro di totale rifiuto della raffigurazione. Anche le formulazioni talmudiche, d’altronde, non sono univoche come si potrebbe pensare a una prima lettura. Sorge allora l’interrogativo se le immagini duramente rifiutate soprattutto in determinati periodi storici, spesso in concomitanza con momenti della storia di Israele in cui il popolo viene maggiormente in contatto con il mondo Gentile, non siano viste come assai meno riprovevoli in altri momenti in cui il timore di idolatria e di assunzione di abitudini straniere è più lontano. Parallelamente, le immagini possono divenire veicolo di concretizzazione, di evocazione del Tempio distrutto, di una Gerusalemme ormai solamente vagheggiata. Dopo la distruzione del Tempio, come si costituiscono altre forme di espressione della tradizione di lettura e di trasmissione, così muta anche il rapporto con il luogo ormai solamente desiderato, simbolo e espressione a un tempo di una realtà non più afferrabile, di una spazialità che ha perduto il suo fulcro, di un popolo che deve costituirsi intorno alla temporalità più che alla spazialità. L’immagine dipinta rappresenta forse, allora, l’evocazione dell’assente, la concretizzazione di ciò che non vi è più, il richiamo a ciò che rischia di morire anche nella memoria, come la scrittura della tradizione orale rappresenta, per certi versi, la sua registrazione, la garanzia che essa non sarà dispersa, che la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, l’uccisione dei maestri e la dispersione delle scuole che tenevano viva la tradizione non ne implicano l’oblio. Se determinazione e denominazione sono limitazione e circoscrizione, tanto che Dio non deve esssere nominato, ogni raffigurazione può divenire una restrizione ma nel momento della lontananza e della nostalgia, possono darsi dei cambiamenti di segno per cui l”immagine, non più limitante e blasfema, non più veicolo di idolatria e di determinazioni improprie, diviene evocazione e memoria, chiarimento e affermazione.
Una volta di più, sembra che la distruzione del Tempio costituisca una cesura ineludibile, e che, a partire da essa mutino anche atteggiamenti e convinzioni. Per questo sembra plausibile, nella esposizione di un problema che pure permarrà nei secoli seguenti, concentrarsi sul periodo immediatamente successivo alla dispersione operata dai romani, anche se verranno fattti cenni alla storia posteriore.
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(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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